Il primato storico del Prof. Calabrese

Il critico artistico-letterario sannicolese ha tradotto per la prima volta “Il Cantico dei cantici” di Re Salomone in Napoletano


«Figliole belle de Gerusalemme: chisto m’è ‘nnamurato e cumpagniello».
Nell’abitazione di San Nicola la Strada, la fucina intellettuale in perenne creazione del critico artistico-letterario e storico dell’arte Prof. Angelo Calabrese produce nel 2016 una particolare opera, che probabilmente è anche primato.
Parliamo della traduzione (molto probabilmente la prima) in lingua napoletana del Cantico dei cantici di Re Salomone, la serie di poemi più belli ed elevanti di tutta la Bibbia. In ebraico abbiamo il Cantico sublime, Shìr hasshirìm. In latino diventa il Canticum Canticorum. In napoletano appare nella forma di A Canzona d’ ‘e canzone, che è de Salomone (Cervino Edizioni, 2016).
Un lavoro duro, prezioso e che abbaglia, arricchito di un commento dell’autore, dal disegno di Antonio Notari e dal lavoro grafico di Maria Fece, che traslano in immagine l’orbitare dei versi: «’nu banchetto addo ce saziammo senza prelibatezze e senza vino ce ‘mbriacammo pe l’eternità».
Il libro è stato presentato nella Settimana Europea della cultura ebraica 2016 a Napoli, più gli appuntamenti di Roma e Salerno.
Esiste anche un manoscritto del Seicento in Napoletano firmato da un “Nicola” (si ipotizza senza certezza il Valletta) che opera sul Cantico dei cantici, ma trasformando drasticamente il testo in funzione di una raffinata critica all’oppressione del libero pensiero durante l’oscurantismo.
Il manoscritto del Seicento è un (importante) gioco di interpretazione e invenzione, pur nella visione del poema biblico (che non può quindi dirsi traduzione). Mentre il lavoro del Prof. Calabrese è estremamente più preciso, pedissequo, poiché l’autore si sottomette all’autentica purezza del poema attraverso l’uso della lingua e della lirica napoletana: «L’ammore mio adda trasi’ dint’ ‘o ciardino suio pe se scegliere ‘e frutte cchiù squisite e se ll’assapurà».
La lingua napoletana riveste le antiche poesie di un particolare colore e di un suono che ben si adeguano alla sacralità erotica di un mistero letterario toccante parti profonde e importanti dell’uomo: «e d’ ‘a vucchella toia aggia gusta’ o vino che doce scenne dint’ ‘a vocca mia scurrenno pe lu musso e pe li diente».
L’opera celebra il reciproco dono, la più santa unione tra corpi e anime, l’amor sensuale che intrecciandosi all’amor spirituale si estende alla reale comprensione dell’amor divino.
Nel commento il Prof. Calabrese scrive: «Gli innamorati del Cantico (…) Sono una costellazione a due soli». L’abbracciarsi tra uomo e donna, donna e uomo, annulla la distanza tra loro e annulla la distanza tra loro e Dio. E’ una progressione che l’autore esprimerebbe nei termini di «Un processo metamorfico in tensione ascendente», perché «l’Uno più l’Una inventa l’unità perfetta».
Nel film Il nome della Rosa, tratto dal romanzo di Umberto Eco, si utilizzano alcuni versi (anche) del Cantico per esprimere l’esperienza interiore del giovane monaco Adso durante l’unione con la ragazza. S’immagini sull’orma del Calabrese di ascoltare nel corso dell’atto un «Essa ce lev’ ‘o sciato, comm’a n’armata che vene annanze cu ‘e bannere aizate». 

Antonio Dentice d’Accadia