Don Francesco parla della Settimana Santa

Continua il contributo che il Parroco di Santa Maria degli Angeli sta offrendo, attraverso il Corriere di San Nicola, per comprendere il significato del periodo di quaranta giorni durante il quale ci si prepara alla Pasqua. 

9 aprile: Domenica delle Palme
"Nel cammino della vita c'è sempre un orto degli ulivi"

 

COME VIVERE LA SANTA PASQUA ATTIMO X ATTIMO: la STORIA, la SPIRITUALITA' e la LITURGIA della QUARESIMA.

 

-di Don Francesco Catrame- 


9 aprile: Domenica delle Palme


OSANNA AL FIGLIO DI DAVIDE

«"Osanna" in ebraico significa "aiuta": questo grido esprime il bisogno di salvezza e di aiuto che l'uomo ha»

Con questa Domenica si conclude il tempo quaresimale. Il viaggio di Gesù, iniziato dalla Galilea, sta per terminare. L'ultima tappa, ci dice il Vangelo, è Betfage, sul monte degli Ulivi; la missione di Gesù sta per giungere al suo culmine. La settimana che sta per cominciare ha un nome particolare: "Settimana Santa" o "Settimana della Passione". Perché "Santa"? Perché "della Passione"?

Durante questa settimana, la chiesa, attraverso le pagine della Scrittura e le celebrazioni che scandiscono i vari giorni, ci fa quasi toccare con mano fin dove è giunta la "passione" del Signore per ognuno di noi. Una "passione" a tal punto coinvolgente che ha portato Gesù a soffrire la "passione" dell'agonia, della cattura, della flagellazione e della morte in croce. Qual è allora questa passione? L'uomo, la sua vita. Sono giorni "santi" appunto perché di "passione". Domenica (due parole sul Vangelo perché è un po' lungo e temo che non tutti avremo coraggio di leggerlo, ma la sfida... rimane aperta e, ve lo assicuro, ne vale proprio la pena) Gesù entra in Gerusalemme ma in modo nuovo. Manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Il Messia, che fino a quel momento si era tenuto nascosto, "prende possesso" della città santa e del Tempio, rivelando così la sua missione di vero e nuovo pastore d'Israele. Perché? Perché vuole rispondere, ancora una volta, come ha fatto per tutta la vita ma adesso in modo definitivo, e per ogni uomo di tutti i tempi, al GRIDO DI OSANNA della gente. "Osanna" in ebraico significa "aiuta".

Questo grido esprime quindi il bisogno di salvezza e di aiuto che la gente sentiva, che l'uomo ha. Finalmente arrivava il Salvatore. Gesù entra in Gerusalemme, e oggi nelle nostre città, nelle nostre case come colui che solo può farci uscire dalla schiavitù per renderci partecipi di una vita più umana, da figli di Dio.E per questo cosa fa? Entra a Gerusalemme sopra un asinello: non su un carro come il capo di un esercito di liberazione, che può contare sulla potenza di uomini o bombe. No, Gesù entra su un asinello. Perché? La sua "passione" per l'uomo è tale che è disposto a salire sulla croce, cioè a consegnare tutto di sé, ad offrire la sua vita.

È DISPOSTO A PAGARE DI PERSONA.

Perché sale sulla croce? Perché Gesù non scende dalla croce di fronte alle insinuazioni e agli insulti della gente che passava di la?: "Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei il figlio di Dio, scendi dalla croce!"? Perché rimane sulla croce? Perché sceglie questa strada tanto assurda e incomprensibile secondo una logica umana? Perché...? Perché Gesù fa suo il "grido di osanna" di ogni uomo. Sulla croce non esiste "osanna", "richiesta di aiuto", "grido" che Gesù non possa raggiungere; sulla croce Gesù si fa uno con la croce di ogni uomo, di ogni tempo. Sulla croce non c'è miseria umana, agonia, passione vivente, flagellazione, abbandono,...che Gesù non raggiunga direttamente, con cui Gesù si fa uno e a cui quindi Gesù può dire ECCOMI, CI SONO, NON SEI SOLO. 


Giovedì Santo: la lavanda dei piedi

"L’amore ha bisogno di esprimersi, deve uscire dal nostro cuore"

«Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell`acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l`asciugatoio di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: "Signore, tu lavi i piedi a me?". Rispose Gesù: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo". Gli disse Simon Pietro: "Non mi laverai mai i piedi!". Gli rispose Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". Gli disse Simon Pietro: "Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!". Soggiunse Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti". Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: "Non tutti siete mondi". Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: "Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l`esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13,2-17).

…si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita…

    • Nel Nuovo Testamento si parla di vesti e di tuniche. La veste indica un abito esterno; la tunica invece era un indumento che s’indossava sotto la veste; era un abito da casa, da lavoro ed era anche l’unico abito dello schiavo. Le vesti esterne invece rivelavano la funzione, il ruolo, il ceto e la provenienza di chi le indossava: un soldato, uno scriba, un pastore, un sacerdote, portavano abiti che indicavano il loro stato. Si distinguevano gli abiti dei ricchi da quelli dei poveri e dei mendicanti. Si riconoscevano gli abiti nazionali da quelli etnici. Togliendosi la veste, indossando la sola tunica, Gesù si pone al di fuori di ogni funzione e di ogni stato sociale, si fa universale, si fa piccolo e debole. Fino a quel momento Gesù era apparso forte: aveva fatto grandi miracoli e aveva parlato con autorità agli scribi e ai farisei.
    • La gente lo seguiva pensando che avrebbe liberato Israele, che avrebbe ridato loro dignità e scacciato i romani. A testimonianza del suo Amore, Gesù invece discende nella piccolezza e nella debolezza: si lascia vincere. Una discesa incominciata con l’incarnazione nel seno di Maria; che continua, in modo visibile per i discepoli, con la lavanda dei piedi; che si concluderà sulla croce, col dono della propria vita. Certo, egli è il Figlio di Dio, è Maestro e Profeta. Possiede autorità e potere, ma non vuole con gli uomini un rapporto DIO/uomo fatto di soggezione e sudditanza da parte degli uomini, vuole manifestarsi come un cuore che vuole incontrare dei cuori, come amico che vuole vivere nel cuore dei propri amici. Togliendosi le vesti Gesù si fa ancora più piccolo, per vincere la nostra paura di Dio, per sostituire in noi l’immagine di un Dio legislatore distante e giudice severo, con quella di un Dio che è Amore, Tenerezza, Provvidenza e Misericordia infinita, un Dio che vuole darsi agli uomini e attirarli tutti a se, che vuole dare agli uomini la dignità di figli.
  • …Signore, tu lavi i piedi a me? …Non mi laverai mai i piedi! …Se non ti laverò, non avrai parte con me…
    • La lavanda dei piedi era un gesto che ciascun ebreo faceva per se. Talvolta veniva fatta dai figli o dalla moglie al capofamiglia, per testimoniare grande amore e sottomessa devozione. Nessun ebreo avrebbe mai lavato i piedi ad un altro ebreo. Tale pratica era considerata umiliante, non poteva essere richiesta a un servo israelita ma soltanto ad uno schiavo non ebreo. Si può quindi immaginare la sorpresa degli apostoli nel vedere Gesù alzarsi e togliersi la veste, prendere acqua e asciugatoio, inginocchiarsi e lavare i loro piedi, nel bel mezzo di una cena solenne. Vi è stata resistenza da parte dei discepoli. Pietro reagisce ed esprime ciò che, senza dubbio, vi è nel cuore di tutti. La sua protesta è l’amorosa venerazione di chi soffre nel vedere l’amato Gesù umiliarsi in quel modo, ma è anche protesta per incomprensione, perché non afferra il significato ed il motivo di quel gesto. Gesù promette a Pietro che più tardi verrà la comprensione, ma in quel momento esige da lui un’obbediente sottomissione: "…Se non ti laverò, non avrai parte con me…". Lasciarsi lavare i piedi da Gesù e accettare il suo amore, non è facoltativo. Se Pietro non si lascia lavare i piedi: rinuncia all’amore di Dio, rinuncia alla comunione con Dio, rinuncia così all’appartenenza al Regno e all’eredità. A questo punto Pietro si lascia vincere; si apre a Gesù. Non può comprenderlo, è confuso; ma non può sopportare l’idea di essere separato da lui.
  • …dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri.
    • Con la sua parola Gesù aveva raggiunto l’insieme del gruppo dei discepoli, ma con la lavanda dei piedi raggiunge ognuno personalmente, entra in comunione con ciascuno di loro, li ama tutti singolarmente. Gesù non si limita a dare agli apostoli una lezione di umiltà che, al momento, avrebbe potuto essere capita abbastanza facilmente, anche se era difficile da accettare. Gesù dice a Pietro: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Nella lavanda dei piedi vi è un mistero che si può comprendere solo col dono dello Spirito Santo. Gesù porta una nuova visione, un modo nuovo di vivere, impossibile da imitare con le nostre sole risorse umane. Gesù, con la forza dirompente di un umile gesto, riassume tutto il suo messaggio ed esprime la logica rivoluzionaria del suo Regno, dove il potere è servizio amorevole e dove in cima alla piramide non ci stanno i potenti ma gli ultimi, i poveri, i diseredati, i deboli. L’acqua lava e purifica. Lavando i piedi dei suoi discepoli Gesù li perdona non "dall’alto", col potere del Maestro, ma "dal basso", con la comunione e la tenerezza. Indica loro un’altra via, quella della piccolezza, dell’umiltà e del perdono. Chiede loro di vivere tutta la follia del Vangelo: amare senza misura, essere compassionevoli, non giudicare ma perdonare sempre, giungere fino ad amare il nemico.
  • Considerazioni generali
  • Gesù compie un servizio che, in quell'epoca, esercitavano gli schiavi: lavare i piedi ai padroni, o a cittadini liberi. Con questo suo atteggiamento, egli, Signore e Maestro, mostra chiaramente che non è venuto per essere servito, ma per servire. La lavanda dei piedi, infatti, non è per lui un atto isolato di amore e di umiltà, ma il simbolo di tutta la sua condotta, del suo amore che arriva fino al dono della vita. Imitare Gesù significa comprendere che noi cristiani abbiamo senso se viviamo «per» gli altri, se concepiamo la nostra esistenza come un servizio ai fratelli, se impostiamo tutta la nostra vita su questa base.
    • L’incredibile atto della lavanda dei piedi suggerisce l’idea stravolgente di un Dio che capovolge ogni schema d’azione inteso come atto vittorioso. Le armi della vittoria sul male sono i gesti del servo, l’autorità nella Chiesa si fonda sulla kenosi del Maestro e dei "maestri", le relazioni della nuova comunità pasquale sono edificate sul servizio reciproco.
  • Gesù depone le vesti e compie il gesto del servo proprio come avrebbe fatto di lì a poco sulla croce: depone la vita e serve l’umanità in un atto d’amore. Il sacrificio eucaristico vissuto come atto di servizio c’interpella a cambiare stile nella comunità. Il comandamento dell’amore, in quest’ottica della lavanda dei piedi, consiste anzitutto nello scendere dal piedistallo di prerogative, vantaggi, superiorità, diritti, ecc., anche quando ne abbiamo tutte le ragioni; invita tutti a deporre le vesti, a lasciare ogni prerogativa di superiorità o di diritto per amore.
  • Finché l’amore rimane "seduto", chiuso in noi, prigioniero della nostra pigrizia e della nostra paura, rimane un bel sentimento che tutt’al più ci tormenta il cuore. L’amore ha bisogno di libertà, ha bisogno di esprimersi, deve uscire dal nostro cuore per comunicarsi con chi ci è prossimo, deve trasformarsi in azione, in cure amorevoli per chi ci è vicino, in carità.
  • La scelta dell’itinerario cristiano passa per la via della croce, intesa non come dolorosa accettazione di una sofferenza, ma come atto generoso di dono, senza reticenze, malcontenti e lamenti! Come vivi il tuo cammino cristiano? Sei disposto a seguire Cristo in questo percorso?
  • Sono capace di mettere da parte il mio orgoglio, il mio egoismo e saper vedere i problemi delle persone che mi vivono vicino? O mi piace essere sempre al centro delle attenzioni degli altri?

    Dagli scritti di Madre Teresa di Calcutta
    Devi amare senza aspettative, fare qualche cosa per l’amore fine a sé stesso, non per quello che ne potrai ricevere in cambio. Se ti attendi qualche forma di ricompensa, non è amore: l’amore vero è amare senza condizioni e senza aspettative. Di sicuro, l’amore si esprime in primo luogo nello stare con qualcuno, piuttosto che nel fare qualcosa per qualcuno. Bisogna tenerlo sempre presente, perché è facile farsi prendere dalle troppe cose che possiamo fare per gli altri. Se le nostre azioni non nascono prima di tutto dal desiderio di stare con una persona, si riducono davvero solo ad assistenza sociale.

Quando hai il desiderio di stare con una persona povera, puoi renderti conto delle sue esigenze e se il tuo amore è autentico, è naturale che tu desideri fare quello che puoi per esprimerlo. Il servizio, in un certo senso, è semplicemente un mezzo per manifestare il tuo essere per quella persona. Guarda cos’ha fatto Gesù nella sua vita sulla terra! L’ha passata tutta a fare del bene.

Ricordo sempre alle sorelle che i tre anni della vita pubblica di Gesù sono stati dedicati ad assistere i malati, i lebbrosi, i bambini; ed è esattamente quanto facciamo noi, che predichiamo il Vangelo mediante le nostre azioni.

Per noi, servire è un privilegio e quello che cerchiamo di dare è un servizio vero, offerto con tutto il cuore. Ci rendiamo conto che quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma l’oceano senza quella goccia sarebbe più piccolo.



Meditazione sulle 7 Parole di Gesù sulla Croce


"La sofferenza entra nel mondo dalla nostra disobbedienza"

Padre, perdona loro, perchè non sanno quello che fanno!

Padre, volgi i tuoi occhi ed effondi la Tua misericordia su tutte le persone di ogni tempo che brancolano nel buio. Illumina i loro cuori e le loro coscienze, rendili capaci di risponderti, responsabili, quindi, e attenti alla Tua voce che parla attraverso il Figlio Tuo.

Fa che tutti, in Lui, siamo capaci di dirti: "non la mia, ma la Tua volontà sia fatta!"

Oggi sarai con me in Paradiso!

Padre, anch'io sono il ladrone in croce per le mie disarmonie, i miei smarrimenti, i miei peccati. Sono rinato nel momento in cui ho accolto questa parola del Tuo Figlio sulla croce. Oggi sarai con me nella casa del Padre. E' un ritorno a casa doloroso, ma salutare e benedetto.

Tu sei benedetto e noi siamo benedetti in Te.

Donna, ecco il tuo figlio. Ecco la tua madre!
Il discepolo amato affidato alla Madre. La Madre affidata a lui.

La Madre col cuore trafitto dal dolore, ma in piedi salda e presente con tutta se stessa sotto la croce. Condivisione piena, totale del mistero di Cristo, sin dal concepimento, che ora culmina nel momento più doloroso, cruciale .......

Essa infonde forza e capacità di condivisione e partecipazione amorosa a tutte le madri di tutti i tempi perché non si lascino abbattere, non soccombano sotto la croce dei figli e, nonostante tutto, aprano i loro cuori alla speranza, all'offerta di una condivisione vera e viva.

In Giovanni si vuol vedere il sacerdote. Ed è giusto, perché veramente essi sono i prescelti, gli amati, i nuovi pastori del gregge.

Ma l'ampiezza, l'altezza, la lunghezza e la profondità dell'amore di Dio estende i frutti di questo rapporto così stretto e così intimo a tutti gli uomini che vogliono affidarsi alla Madre e ai discepoli prediletti, divenire a loro volta discepoli.

Mi conforta che sotto la croce c'è anche la Maddalena. Non ci sta come una regina, perchè il suo dolore è meno composto e il suo animo, pur liberato dal male, è ancora appesantito dalle conseguenze di esso. Ma anche lei è lì, non è andata via, non è fuggita; ed è lei che vedrà per prima il suo Maestro e Signore Risorto. Lei ha bisogno di vederlo e quindi il Signore non le si nasconde, le appare.

Maria, invece, certamente ha sentito nel suo cuore questa esplosione misteriosa di vita. Lei è così intimamente coinvolta nel mistero del suo Figlio ed è così profondamente presente ...........

Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?

E' una solitudine abissale, ancor più profonda e drammatica di quella del Getsemani confortata, pur nell'immensità della pesantezza e della sofferenza, dall'angelo e dalla consapevolezza di essere nella volontà del Padre.

E' il turbamento della natura umana di fronte al mistero della morte. E' anche il silenzio di Dio che noi uomini viviamo come abbandono. Il momento del buio e del culmine della prova. E' l'assenza di Dio che sperimentiamo anche noi.

Più di una volta mi è venuto in mente che l'abbandono provato da Gesù coincide con la suprema donazione che Dio ci fa di se stesso. Condivisione immensa per amore immenso. E' Dio che soffre in quell'attimo supremo; chi potrebbe consolarlo?

Un teologo potrebbe dirmi che Dio, nella sua perfezione, non può soffrire.

Io credo che, per amore, Dio ha voluto, nel caricarsi della nostra umanità, caricarsi anche della nostra sofferenza fino in fondo. Come potremo più rimproverargli la sofferenza, che ci scandalizza sempre, come se dipendesse da Lui?

La sofferenza è entrata, entra nel mondo dalla nostra disobbedienza che ci disinnesta dalla sorgente della vita, della nostra vita vera: come possiamo rimproverare al Signore la sofferenza che c'è in noi, che c'è nel mondo?

Ma di che amore siamo amati, se un Dio, Signore immenso, è diventato uno di noi, è entrato nella nostra umanità e, quindi, anche nella nostra sofferenza e, perciò anche nel nostro male, per riscattarla, trasformarla nella Sua gloria!

Zaccheo era un peccatore: eppure il Signore, passando si ferma, lo guarda e gli dice:"scendi subito, stasera devo fermarmi a casa tua". E Zaccheo scende "pieno di gioia" (kairòn: è lo stesso verbo del saluto dell'angelo a Maria Kaire!). Gesù si ferma e entra nella casa di un peccatore. Quanto mi consola nel mio sentirmi sempre indegna. Lui non aspetta che io sia perfetta, per venire, per nascere in me!

Cosa troverai Signore nella mia casa?

Ho sete!

Dio ha sete di anime. Le anime hanno sete di Dio.

Signore, fa che tutte le anime di tutti gli uomini riconoscano questa sete e, anziché abbeverarsi come animali a cisterne screpolate (tutti gli idoli con cui si illudono di estinguerla) ascoltino e rispondano al tuo grido (a me sembra che tu gridi queste parole): CHI HA SETE VENGA E BEVA CHI CREDE IN ME: FIUMI D'ACQUA VIVA SGORGHERANNO DAL SUO SENO!

Signore, io intuisco cosa significa: Fa che io lo viva!

Signore, noi abbiamo sete dell'acqua che sgorga dal tuo costato trafitto, del sangue salutare che hai effuso fino all'ultima goccia.

Tu sei il Tempio, anzi la Sorgente, da cui sgorga l'acqua viva in cui ogni essere che vi brulica ha la vita.

Inondami, Signore, con quest'acqua, che oggi io accolgo stando ai piedi della tua croce, non più curvo sotto la mia croce, ma in piedi, perché Tu e la Tua e mia Madre l'avete reso possibile.

L'ampiezza, l'altezza, la lunghezza e la profondità dell'amore di Dio che supera ogni conoscenza rendono possibile che questo mistero si estenda e si rinnovi e si renda presente ogni volta che siamo presenti in piedi e con il cuore rivolto e pieno di te accanto alla croce dei fratelli che incontriamo nel nostro cammino, dei nostri familiari, del mondo intero che ci entra in casa e nel cuore attraverso le immagini televisive. E, per quel che non vediamo, ci entra nel cuore lo stesso perché, se siamo inseriti nel tuo cuore, ci troviamo tutte le gioie e le sofferenze del mondo.

Signore, se avrò gustato solo una goccia di questo mistero e di questa grazia, riuscendo a morire a me stesso, unito alla tua croce, non mi verranno più dubbi e paure.

Tutto è compiuto!

"....li amò sino alla fine."

Colui che amò sino alla fine e donò di se stesso tutto fino all'ultima goccia di sangue e l'ultimo alito di vita e perpetua questo dono del pane vivo disceso dal cielo nell'eucarestia, potè dire davanti al Padre e al mondo di aver portato a compimento la ragione per cui era venuto nel mondo.

Ma Egli è la stessa cosa con Colui che l'ha mandato, con il Padre, sorgente della mia vita e del mio essere, che, in Lui e attraverso di Lui, si dona a me.

E io? Che misero, ingrato e povero e disattento e incapace sono io! Ma non mi sgomento più, perchè il mio Signore mi conosce, mi vede e mi ama come sono. E il Suo amore donato e accolto incessantemente, mi ha liberato e mi sta guarendo e trasformando. E io mi lascerò continuare a guarire e trasformare.

Eccomi, Signore, finalmente si è fatta strada nelle tenebre della mia vita, la Tua luce, la Tua voce, la Tua verità. E io sono qui che non fuggo più la mia realtà, nè più mi ribello nè più mi dibatto; ma, amorosamente attento, ti ascolto, ti seguo, imparo ad amarti.

Tutto è compiuto: che abisso di amore e di sofferenza! Ed è compiuto anche per me.

Tutto l'uomo è tornato al Padre. E' già compiuto, è già operato dalla nascita, dalla vita, dalla morte, dalla Risurrezione e assunzione di Gesù, il Cristo. Sta diventando vero anche per me. Tu sei il mio Signore e il mio Dio.

Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito!

Prima di consegnare il Suo Spirito al Padre, Cristo Gesù si è consegnato nelle nostre mani. Dono totale, fino alla fine, senza conservare nulla per se'.

Inaudito, divino, immenso amore-dono.

Padre, Padre nostro, anch'io consegno il mio spirito, che non è mio, è Tuo perchè viene da Te, nelle tue mani. Mani: accolgono, modellano, accarezzano, creano, stringono, sostengono, benedicono, ammoniscono, indicano, frenano, affrettano sollecitando amorosamente, curano, trasmettono amore, richiamano, sollevano, attraggono.

Padre, è una decisione irrevocabile; possibile perchè il Figlio Tuo prediletto lo ha già fatto per me, per noi.

Padre, la Tua misericordia è veramente più grande del mio cuore. E' così grande la mia miseria, la mia meschinità; ma più grande è il Tuo amore per me, la Tua volontà di salvezza.

SIA FATTA, PADRE, LA TUA VOLONTA' COME IN CIELO, COSI' IN TERRA.

Come in cielo è la mia immagine di Te, non contaminata, redenta e purificata da Cristo, dal lavacro del Suo sangue effuso, sparso per la salvezza dei figli perduti, fa sì che si scriva nella mia terra.

Padre, fa che in me non ci siano più barriere di paura, di egoismo, di incapacità.

La tua volontà fatta nella mia vita nel mio essere nel mio cuore con Te PER CRISTO, CON CRISTO, IN CRISTO.

Fatta-insieme. Significa che non è precostituita, ma frutto della Tua chiamata e della mia risposta.

Padre, se sono qui è perchè Tu mi hai voluto.

Padre, nel Signore Gesù e con l'intercessione della Sua e mia Madre, Maria, che Tu hai scelta perchè sia la fonte da cui sgorga, per la nostra salvezza, la sorgente della Tua vita, io mi abbandono in Te, Ti consegno tutto me stesso, quella che sono e che sarò.



L’ORTO DEGLI ULIVI


"Nel cammino della vita c’è sempre un orto degli ulivi"


Nel cammino della vita c’è sempre un orto degli ulivi!

Anche il tuo Figlio, o Signore, si inoltrò insieme a tre discepoli nell’orto della prova e fu la desolazione.

I suoi amici si assopirono e vissero momenti di oblio.

Gesù fu solo! Solo e nel cuore un dolore.

A che serve soffrire per chi dorme, oppure per chi veglia unicamente per studiare il modo di far male agli altri?

I tre discepoli, i prediletti si scordano del loro Maestro: non avevano colto il significato di quella passeggiata notturna.

Gli altri, i nemici, vegliavano, studiando, nella notte, che fare per mettere in catene il Nazzareno.

Sentirsi soli, nell’orto degli ulivi è fare esperienza di morte.

L’uomo rifugge la morte e chiede di vivere. Se non c’è chi lo ami, dispera e muore, prima dell’alba.

Chi sono io, se non ho il coraggio di riconoscere, col Cristo, che morire per gli altri, per gli altri soffrire, è vivere, ma come vuoi tu!

Nell’orto degli ulivi, pregare Te, o Padre, significa impegnarsi sul serio a compiere la tua volontà.


 


LE DOMENICHE PRECEDENTI

La Quaresima ogni anno giunge repentina, ci coglie lì dove siamo e ci spinge, quasi ci costringe a iniziare ancora una volta un cammino di conversione. Un cammino che è un tempo di preghiera nel quale discernere la “presenza” con la quale scegliamo di vivere e convivere. Un cammino di rinuncia e condivisione che è tempo nel quale non pretendere per sé più di quanto si riconosce agli altri.
La Quaresima è dunque una chiamata che porta i tratti di un appello interiore, quell’intima ingiunzione spirituale che la parola del Signore sempre ci fa sentire quando decidiamo di ascoltarla. Per questo, non siamo noi a entrare in Quaresima ma è la Quaresima che entra in noi, e in qualche modo ci forza, ci fa violenza e si impone come una sorta di controtempo al nostro tempo.
Noi vorremmo vivere il tempo che ci è dato in quella tranquillità e leggerezza che lo stare alla superficie della vita accorda, lasciandoci portare dagli eventi, dai fatti piccoli e grandi che segnano la nostra quotidiana esistenza di persone, di credenti, di cittadini e che, alla lunga, impercettibilmente ci spossessano della libertà di decidere e di scegliere che uomini e donne essere, che vita vivere. 
Lasciare che le cose accadano senza assumere su di esse uno sguardo evangelico, significa infatti cedere alla tentazione di consegnare le chiavi del senso delle nostre vite a forze, a dominanti, a poteri che alla fine ci sovrastano e ci dominano perché abbiamo per troppo tempo consentito loro di regnare dentro di noi. La Quaresima è tempo di prova perché è tempo di decisione, ossia tempo nel quale consentiamo al Vangelo di Cristo di costringerci alla scelta, di stanarci nelle nostre ambiguità, di rivelarci gli aspetti umanamente e spiritualmente irrisolti.
Come i giorni dell’Avvento corrispondono ai giorni più bui dell’anno che culminano nel giorno del Natale, nel quale la luce vince la tenebra, così i quaranta giorni della Quaresima corrispondono ai giorni nei quali la natura, dopo il sonno invernale, torna a vivere. Se l’Avvento invoca la venuta della luce più forte delle tenebre, la Quaresima invoca la vita più forte della morte. Il fine della Quaresima è la Pasqua, la rinascita a una vita che non rinuncia mai a rinnovarsi.
Ciclo della vita naturale e ciclo della vita spirituale pulsano al medesimo ritmo, conoscono le medesime regole e gli stessi principi. Per questo, la Pasqua cristiana ricorre sempre la domenica dopo il primo novilunio di primavera perché è la prima luna nuova che segna cosmologicamente l’inizio vero della primavera. Il lavoro interiore che i credenti attraverso la preghiera, la rinuncia e la condivisione compiono nei quaranta giorni quaresimali, ha la stessa dinamica spirituale del lavoro nascosto che il seme sotterra compie nel corso dell’inverno per poter spuntare a primavera e poi germogliare e portare frutto a suo tempo.
Il seme ha bisogno di un tempo nel quale, nascosto sotterra, possa morire a se stesso affinché dalla propria morte nasca una nuova vita. Così, i giorni della Quaresima sono i giorni nei quali il cristiano cerca di comprendere a fondo, facendo esistenzialmente propria quella parola del Vangelo nella quale Gesù ha sintetizzato la sua stessa esperienza spirituale di morte e vita: “Se il seme, caduto a terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Nel mistero del seme Gesù ha riconosciuto il senso della sua vita. Nel mistero del seme è anche racchiuso il senso spirituale della Quaresima.

La Quaresima è tempo e spazio dello Spirito
Se avvertiamo la Quaresima come una forza a noi opposta e come realtà esterna costringente, sentendo in essa tutta la potenza della parola di Dio e l’appello alla conversione, questo significa che stiamo entrando in Quaresima. La forza dello Spirito che spinge Gesù nel deserto è la stessa forza spirituale che costringe il cristiano a entrare in Quaresima. 
Se neppure in questi quaranta giorni sentiremo nella nostra carne lo scontro tra noi e la parola di Dio, il conflitto tra i nostri pensieri e lo spirito del Vangelo, la contraddizione tra le nostre azioni e l’agire di Cristo; se neppure in questi quaranta giorni prenderemo coscienza che la fedeltà al Vangelo di Cristo significa lotta e agonia, perché la fedeltà al Vangelo ha un prezzo da pagare che per il Cristo è stata la croce; se neppure in Quaresima sentiremo che tutto questo attraversa le nostre fibre, allora avremo ridotto la fede a un’osservanza religiosa e avremo fatto del Vangelo di Cristo un insieme di valori fondativi.
Quando avremo retrocesso il cristianesimo a puro sentimento religioso che fa da sfondo consolatorio alla vita e ridotto il Vangelo a contenitore di alti ideali, allora non conosceremo cos’è la lotta in nome della fedeltà al Vangelo, la tentazione a causa del Vangelo. Tutt’al più soffriremo per un po’ di incoerenza tra l’ideale che abbiamo di noi stessi e il reale di quello che invece concretamente siamo. 

2 aprile, quinta domenica: la risurrezione di Lazzaro
"La vittoria della vita sulla morte" 
La vittoria della vita sulla morte è al centro della nostra attenzione in questa ultima domenica di quaresima. È una vittoria che si realizzerà solo nel mistero pasquale di Cristo (passione, morte e resurrezione), ma in questa liturgia si prefigura già nella visione del profeta Ezechiele e, soprattutto, nella resurrezione di Lazzaro (vangelo), l'amico di Gesù. Il tema di fondo è di grande interesse: la morte è ed è sempre stata un enigma insolvibile per il genere umano. Possiamo dire che dopo i vangeli quaresimali della samaritana e del cieco dalla nascita, questo ultimo brano su Lazzaro promuove la speranza dell'uomo peccatore ad un'altezza inimmaginabile. Benché l'uomo sia morto a causa dei suoi peccati e delle sue colpe, è assai più grande il potere del Signore che lo salverà.
1 - La Resurrezione di Lazzaro e la passione di Gesù. La liturgia di questo giorno ci predispone a vivere la passione del Signore nostro Gesù Cristo. Gesù appare nel Vangelo della resurrezione di Lazzaro come colui che ha potere sulla morte. Egli è veramente la resurrezione e la vita, e lo dimostra con le sue opere. Si realizzano così le parole dello stesso Giovanni in un altro brano del suo vangelo: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). Il Signore è il Dio della vita e non si compiace della morte dei viventi. Quello che risulta impossibile all'uomo, come dare vita ad un corpo ormai inerte, resuscitare un morto, è possibile a Dio, per il quale niente è impossibile. La resurrezione di Lazzaro è l'ultimo miracolo che Gesù compie prima della sua Passione. È la conclusione di tutti i "segni" che Giovanni colloca in una sorta di "crescendo". Affinché l'uomo possa avere la vita, affinché sia sconfitto l'"ultimo nemico, la morte" (cfr 1 Cor 15,26), è necessario che il Cristo offra la sua vita, soffra la sua passione, muoia e resusciti. Sembra che Gesù, incamminandosi con decisione verso Gerusalemme per compiere la sua missione, voglia affrontare in anticipo la morte qui in Betania, e annunciare la sua vittoria definitiva. Cristo ci offre, già qui, un segno e una prova della resurrezione dell'ultimo giorno, restituendo la vita a Lazzaro. Annuncia così la sua stessa resurrezione che, tuttavia, sarà di ben altro ordine.
2 - L'amore di Gesù. Nella scena di Betania, la nostra attenzione è efficacemente richiamata dalla frequenza con cui l'evangelista mostra la commozione di Gesù. Gli annunciano, con poche e delicate parole, che "il tuo amico è malato". Sappiamo che Gesù era un caro amico di Lazzaro e delle sue sorelle. Vedendo piangere Maria e coloro che la accompagnavano Gesù resta turbato, si commuove. Poi Gesù, arrivando presso il sepolcro, pianse davanti alla tomba dell'amico, mostrando pubblicamente il suo dolore. Si rivela così, semplicemente, l'infinita compassione del Signore, la sua profonda sensibilità, la sua grande umanità. Egli è vero Dio e vero uomo che condivide in modo solidale la sorte dei mortali. Egli è il buon samaritano che si muove a compassione vedendo la disgrazia del passante, Egli è il buon pastore che dà la vita per le sue pecore. Dio e uomo, perfetto nella sua umanità e perfetto nella sua divinità. In lui comprendiamo che Dio è amore. È vero che il brano della resurrezione di Lazzaro è un compendio della Cristologia, un evento fondamentale della rivelazione di Gesù. Ecce homo: c'è qui l'uomo perfetto nella sua umanità. Ecce Deus: c'è qui Dio, il Signore della vita e della storia.
3 - Credere in Gesù è già vincere la morte. Il passo della resurrezione di Lazzaro non ci mostra solo il potere di Cristo sulla morte, in più, ci fa rilevare che il credente è unito a Gesù in modo tale che neanche la morte lo potrà separare. In altre parole, il credente non morrà per sempre. Questo insegnamento si manifesta nella conversazione tra Marta e Gesù. Il risultato della fede, secondo questo dialogo, è il possesso della vita eterna: "chi che crede in me non morrà in eterno". Un possesso che ha inizio già nel momento presente. Non è necessario aspettare l'"ultimo giorno" per possedere già la vita eterna.

San Tommaso commenta: "la fede è una virtù propria dello Spirito con la quale comincia in noi la vita eterna" (S.Th II-II c.14,1c).

"Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l'uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene", (cfr. Gaudium et spes 18).
1. Il tuo amico è malato. Ciò che più consola la persona umana è il sentirsi amata, sentirsi eternamente amata, e per questo motivo, è necessario che l'uomo volga il suo sguardo a Cristo, rivelatore dell'amore del Padre. Il passar del tempo continua a lasciare le proprie tracce nella vita dell'uomo, nel suo spirito e nel suo corpo: all'infanzia sussegue la gioventù, e a questa l'età matura e la vecchiaia. Il nostro corpo soffre il deterioramento causato dal tempo. La sensazione di incamminarsi verso l'imbrunire della vita è presente nella vita dell'uomo. È necessario, pertanto, ritornare a queste parole del vangelo: "il tuo amico è malato". In mezzo alla malattia e al dolore e all'ineluttabilità della morte, c'è "Qualcuno" che mi ama davvero di un amore infinito. La persona che attraversa la prova della malattia può sentire la sicurezza che Cristo la ama e l'accompagna in questo delicato passaggio della sua vita. José MaríaRilkeha saputo esprimerlo in poesia: "Cadono le foglie, cadono come da lontano. Cadono come se appassissero lontani giardini nei cieli. Cadono con gesti che sembra che neghino tutto... Tutti noi cadiamo...

E tuttavia, c'è qualcuno che - con cura infinita - sostiene questo cadere nelle proprie mani". Nelle nostre Parrocchie ci sono molti malati che hanno bisogno dell'amore di Dio. Rinnoviamo il nostro spirito autenticamente cristiano per andar loro incontro.

Non possiamo rimanere indifferenti davanti ad essi. Promuoviamo tra i nostri fedeli una nuova sensibilità per chi soffre, per l'anziano abbandonato, per il malato che non può guarire, ma che può essere "accudito", cioè godere della nostra attenzione e del nostro amore. Essi, i malati, sono "altri Cristo", sono "gli amici del Signore" che aspettano la nostra visita.
2. Il Maestro è qui e ti chiama. Dio chiama l'uomo ad un'alta vocazione: condividere la vita divina. Questa vocazione si realizza in ognuno di noi in modo particolare. Perciò, non dobbiamo stancarci di gettare le nostre reti per pescare. Il Signore invita gli uomini alla sua amicizia: alcuni li chiamerà alla consacrazione totale nel sacerdozio o nella vita religiosa, altri li chiamerà all'incredibile vocazione familiare, altri li chiamerà ad una vocazione di totale servizio degli altri, ma tutti sono invitati a condividere il suo amore. Dobbiamo essere noi gli annunciatori della chiamata di Dio, facendo tutto quanto sia in nostro potere per promuovere la nascita della vocazione divina, specialmente quella religiosa, per le necessità del nostro tempo. Non ci spaventi l'apparente indifferenza di chi circonda. Il mondo continua ad avere bisogno di Dio e di annunciatori del suo amore.

È molto interessante quel dialogo del Curato di Ars col Signore: "Signore, perché mi inviasti al mondo?

Per salvarti, rispose il Signore.

E, perché vuoi che mi salvi?

Perché ti amo".

26 marzo, quarta domenica: il cieco nato
"Siamo tutti dei... ciechi nati. Il mondo stesso è nato cieco"
La guarigione del cieco nato ci riguarda da vicino, perché, in un certo senso, siamo tutti dei... ciechi nati. Il mondo stesso è nato cieco. Stando a quello che ci dice oggi la scienza, per milioni di anni c'era la vita sulla terra, ma era una vita allo stato cieco, non esisteva ancora l'occhio per vedere, non esisteva il vedere stesso. L'occhio, nella sua complessità e perfezione, è una delle funzioni che si sono formate più lentamente. Questa situazione si riproduce in parte nella vita di ogni singolo uomo. Il bambino nasce se non proprio cieco, almeno incapace ancora di distinguere i contorni delle cose. È solo dopo qualche settimana che comincia a mettere a fuoco le cose.
Se il bambino fosse in grado di esprimere quello che prova quando comincia a vedere chiaramente il volto della mamma, le persone, le cose, i colori, che "oh!" di meraviglia si ascolterebbe! Che inno alla luce e alla vista! Il vedere è un miracolo. Solo che non ci facciamo caso perché ci siamo abituati e lo diamo per scontato. Ecco allora che Dio a volte opera la stessa cosa in modo repentino, straordinario, così da scuoterci dal nostro torpore e renderci attenti. È quello che fece con la guarigione del cieco nato e di altri ciechi nel Vangelo. Ma è solo per questo che Gesù guarisce il cieco nato? C'è un altro senso in cui noi siamo nati ciechi. C'è un altro occhio che deve ancora aprirsi nel mondo, oltre quello materiale: l'occhio della fede! Esso permette di scorgere un altro mondo al di là di quello che vediamo con gli occhi del corpo: il mondo di Dio, della vita eterna, il mondo del Vangelo, il mondo che non finisce neppure con la...fine del mondo.

Questo ha voluto ricordarci Gesù con la guarigione del cieco nato. Anzitutto, egli invia il giovane cieco alla piscina di Siloe. Con ciò Gesù voleva significare che questo occhio diverso, della fede, comincia ad aprirsi nel battesimo, quando riceviamo appunto il dono della fede. Per questo nell'antichità il battesimo si chiamava anche "illuminazione" e essere battezzati si diceva "essere illuminati". Nel caso nostro non si tratta di credere genericamente in Dio, ma di credere in Cristo. L'episodio serve all'evangelista per mostrarci come si arriva a una fede piena e matura nel Figlio di Dio. Il recupero della vista da parte del cieco procede infatti di pari passo con la sua scoperta di chi è Gesù.

All'inizio, per il cieco Gesù non è che un uomo: "Quell'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango...". Più tardi alla domanda: "Che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?", ed egli risponde: "È un profeta!". Ha fatto un passo avanti; ha capito che Gesù è un inviato da Dio, che parla e opera in nome di lui. Infine, incontrando di nuovo Gesù, gli grida: "Io credo, Signore!" e si prostra dinanzi a lui per adorarlo, riconoscendolo così apertamente come suo Signore e suo Dio. Descrivendoci così dettagliatamente tutto ciò, è come se l'evangelista Giovanni ci invitasse molto discretamente a porci la domanda: "E io, a che punto sono di questo cammino? Chi è Gesù di Nazaret per me?". Che Gesù sia un uomo nessuno lo nega. Che sia stato un profeta, un inviato da Dio, anche questo è ammesso quasi universalmente. Molti si fermano qui. Ma non basta. Anche un musulmano, se è coerente con quello che trova scritto nel Corano, riconosce che Gesù è un profeta. Ma non per questo si considera un cristiano. Il salto mediante il quale si diventa cristiani in senso proprio è quando si proclama, come il cieco nato, Gesù "Signore" e lo si adora come Dio. La fede cristiana non è primariamente credere qualcosa (che Dio esiste, che c'è un al di là...), ma un credere in qualcuno. Gesù nel Vangelo non ci da una lista di cose da credere; dice: "Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me" (Gv 14,1).

Per i cristiani credere è credere in Gesù Cristo.

19 marzo, terza domenica: Gesù e la Samaritana 
"Eternità, una parola caduta in 'disuso' "… 
Alla Samaritana, e a tutti coloro che in qualche misura si riconoscono nella sua vicenda, Gesù fa nel Vangelo di questa Domenica una proposta radicale: cercare un'altra "acqua", dare un senso e un orizzonte nuovo alla propria vita. Un orizzonte eterno! "L'acqua che io darò diventerà in lui sorgente che zampilla per la vita eterna". Eternità è una parola caduta in "disuso". È diventata una specie di tabù per l'uomo moderno. Si crede che questo pensiero possa distogliere dall'impegno storico concreto per cambiare il mondo, che sia un'evasione, uno "sprecare in cielo i tesori destinati alla terra", diceva Hegel. Ma qual è il risultato? La vita, il dolore umano, tutto diventa immensamente più assurdo. Si è persa la misura. Se manca il contrappeso dell'eternità, ogni sofferenza, ogni sacrificio appare assurdo, sproporzionato, ci "sbilancia", ci butta a terra. S. Paolo ha scritto: "Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria". In confronto all'eternità della gloria, il peso della tribolazione gli appare "leggero"(a lui che nella vita ha sofferto tanto!) proprio perché "momentaneo". Infatti, aggiunge: "le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne"(Cor 4, 17-18). Il filosofo Miguel de Unamuno (che pure era un pensatore "laico"), a un amico che gli rimproverava, quasi fosse orgoglio e presunzione, la sua ricerca di eternità, rispondeva in questi termini: "Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri, dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d'eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Senza di essa non c'è più gioia di vivere...È troppo facile affermare: Bisogna vivere, bisogna accontentarsi di questa vita. E quelli che non se ne accontentano?".

Non è chi desidera l'eternità che mostra di non amare la vita, ma chi non la desidera, dal momento che si rassegna così facilmente al pensiero che essa debba finire.

Sarebbe un grande guadagno, non solo per la Chiesa ma anche per la società, riscoprire il senso dell'eternità. Aiuterebbe a ritrovare l'equilibrio, a relativizzare le cose, a non cadere nella disperazione di fronte alle ingiustizie e al dolore che ci sono nel mondo, pur lottando contro di esse. A vivere meno freneticamente.

Nella vita di ogni persona c'è stato un momento in cui ha avuto una qualche intuizione dell'eternità, un sentore, per quanto confuso... Bisogna stare attenti a non cercare l'esperienza dell'infinito nella droga, nel piacere sfrenato e in altre cose dove, alla fine, c'è solo delusione e morte. "Chi beve di quest'acqua avrà ancora sete", disse Gesù alla Samaritana. Bisogna cercare l'infinito in alto, non in basso; al di sopra della ragione, non al di sotto di essa, nelle ebbrezze irrazionali.

È chiaro che non basta sapere che esiste l'eternità, bisogna anche sapere come si fa a raggiungerla. Chiedersi come il giovane ricco del Vangelo: "Maestro che devo fare per avere la vita eterna?". Leopardi, nella poesia "L'Infinito", parla di una siepe, che "da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude". Cos'è per noi questa "siepe", l'ostacolo, che ci impedisce di spingere lo sguardo verso l'orizzonte ultimo, quello eterno?

La Samaritana, quel giorno, capì che qualcosa doveva cambiare nella sua vita se voleva ottenere la "vita eterna", perché la troviamo di lì a poco trasformata in una evangelizzatrice che racconta a tutti, senza vergogna, quello che le ha detto Gesù.

12 marzo, seconda domenica: La trasfigurazione di Gesù 
"Li condusse in disparte, su un alto monte..."
Nel brano di questa Domenica, la seconda di Quaresima, ecco ricomparire il monte, il luogo in cui Dio si rivela; dopo l'altura in cui Cristo affrontò Satana, vincendolo con la forza della Parola di Dio, e dopo il monte Tabha, dal quale proclamò le 'beatitudini', segno della presenza di Dio nella storia dell'uomo, ecco, ora, il monte detto della Trasfigurazione, una modesta altura, dal punto di vista geografico, ma alto per l'evento che su di esso si compie. Il Maestro e i suoi discepoli, sono in cammino verso Gerusalemme, e, ad un certo punto del percorso, egli scelse tre dei suoi, Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse con sé, su un'altura e qui, come recita il testo,  
fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce....".
Siamo di fronte ad un'anticipazione della Pasqua, di quel momento prodigioso che nessuno poté vedere, il momento della resurrezione del Figlio di Dio dalla morte. Il volto trasfigurato e splendente, e le vesti luminose nel loro candore, sono segni della gloria del Risorto, una visione che prefigura quel che sarà, dopo i giorni del dolore, una visione, che svela la vera identità di Gesù di Nazareth, una visione che indica quale sarà la condizione finale dei redenti, quando, superata la soglia della morte, saranno, anch'essi, gloriosi e luminosi della stessa gloria e luce del loro Dio e Signore. Sul monte Tabor, i tre discepoli, scelti come testimoni di un evento grandioso, assistono, stupiti, ad una solenne teofania, al centro della quale sta il Cristo; accanto a Lui, infatti, compaiono due personaggi, che simboleggiano tutta l'antica Alleanza: sono Mosè, che sul Sinai conobbe il nome di Dio e da Lui ricevette le tavole della Legge, ed Elia, che riassume tutta la Profezia, la quale parla del Messia promesso, quel Messia che ora è in mezzo a loro.
Cristo, piena rivelazione del Padre, come Paolo scrive (Col.1,15), è anche il cuore del mondo, Colui per mezzo del quale Dio riconcilia in sé tutte le cose e rappacifica col sangue della sua croce ogni uomo (Ib.1,20).
Una teofania esaltante, questa del Tabor, una visione carica di gioia incontenibile, che fa esclamare a Pietro: "Signore, è bello per noi restare qui...". Pietro, vorrebbe fermare e prolungare all'infinito quel momento di grazia e, nella sua fantasia, pensa a tre tende da destinare a Mosè, Elia e allo stesso Maestro; ma la tentazione di fermare il tempo non ha senso, soprattutto esula dalla missione di Gesù, che deve raggiungere quell'altro monte, il Calvario, sul quale si compirà il suo destino di Redentore. Lì, sul Tabor, i tre discepoli sono ammessi ad una esperienza di luce straordinaria, sono avvolti da una nube luminosa; e quello straordinario chiarore, un chiarore di fede, si fa voce, la voce del Padre, che, come già al Giordano, dice: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo!».
L'ascolto, che dovrà farsi sequela, è il senso di quella illuminazione straordinaria, di quella esperienza pasquale anticipata, e diventa imperativo nella vita del credente, un imperativo che si fa più forte nel cammino quaresimale. Ed ecco il timore dei tre, il timore dell'uomo di fronte alla grandezza di Dio, ma Gesù, ritornato il Maestro di sempre, li rincuora e li invita a scendere con lui dal monte, a riprendere il cammino quotidiano, a riprendere, soprattutto, la marcia verso Gerusalemme, mentre, lungo la via, parlerà loro della sua imminente passione.
La visione luminosa è scomparsa e il Vangelo non ci dice quale eco essa abbia avuto nel cuore dei tre, che si accompagnano al Cristo; probabilmente non avevano compreso a pieno quel dono di grazia; lo terranno come sepolto nella memoria, tanto, che abbandoneranno il loro Maestro nei giorni del processo e si nasconderanno dopo la sua morte.
Capiranno poi, rivivranno quello splendore del Tabor, allorché lo Spirito scenderà su loro e li trasformerà radicalmente, facendone dei testimoni intrepidi e autorevoli; come racconta lo stesso Pietro nella sua seconda lettera "Quella voce, noi l'abbiamo udita discendere dal cielo, mentre eravamo con il Cristo sul santo monte. A quella voce fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno, e la stella del mattino si levi nei vostri cuori "(1,18-19).
La trasfigurazione è mistero che apre uno spiraglio sulle realtà ultime, quando, accanto al Cristo glorioso, anche noi, che lo abbiamo seguito, saremo trasfigurati nella gloria di Dio; la trasfigurazione, momento felice, momento di luce, è un dono grande di contemplazione, che esalta l'anima e la conforta, ma non perché ci si fermi in uno sterile godimento spirituale, come rannicchiandoci in una tenda; la contemplazione autentica, infatti, mentre ci fa entrare nelle profondità del Mistero, allo stesso tempo diventa forza che accompagna nel cammino della vita, perché sia una sequela generosa del Cristo. La contemplazione dei Misteri più alti, come questo della Trasfigurazione, deve illuminare il nostro quotidiano, anche il più oscuro e faticoso; deve guidarci nell'agire, perché, il segmento di storia che viviamo e che stiamo costruendo assieme agli altri, abbia al suo centro Cristo Redentore. Il dono della contemplazione di Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per la salvezza di tutti gli uomini, deve renderci discepoli attenti ed operosi, ricchi di fede e forti; capaci, all'occorrenza, anche di "soffrire per il Vangelo", come Paolo scrive, aiutati dallo stesso Signore Gesù che, per tutti, ha vinto la morte e a tutti vuol dare la sua salvezza.

5 marzo, prima domenica: Gesù nel deserto.
La tentazione mette alla prova all'uomo, lo espone al confronto, alla lotta”.
 
La "tentazione" sembra essere la parola chiave che unifica le letture di questa prima domenica di Quaresima. Tuttavia, non è l'unica parola. Accanto ad essa dovremmo collocarne un'altra espressione molto importante: "combattimento spirituale" e sconfitta della tentazione. In questo senso, è il Vangelo quello che ci offre il tema centrale: Gesù Cristo è tentato nel deserto e vince la tentazione.
Ben diversamente da Adamo, che soccombe davanti al tentatore alle origini dell'umanità (prima lettura): come avvenne che a causa di un uomo il peccato e la morte entrarono nel mondo, così per merito di un solo uomo, Gesù Cristo, Verbo incarnato, vi entrarono poi la grazia e la misericordia di Dio. La tentazione vinta in Cristo, con l'aiuto della grazia, è fonte di crescita spirituale e vera felicità.
Il testo Javhista della Genesi sulla creazione e la prima caduta sottolinea in modo speciale la "centralità" dell'uomo, dell'essere umano nell'opera creativa. Il Signore "plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò in lui lo spirito di vita". Il resto del racconto colloca tutta la creazione in funzione dell'uomo e gli serve da scenario.
Questa centralità si esprime in modo suggestivo, quando Dio pose l'uomo nel giardino, affinché desse "nome a tutti gli animali del campo ed agli uccelli del cielo". Tuttavia, nonostante questa posizione di privilegio nel giardino dell'Eden, ha luogo un dramma dalle insospettabili conseguenze. L'uomo, tentato dal serpente, vuole decidere da sé ciò che è bene e ciò che è male, prerogativa che appartiene solo a Dio, perché l'uomo, nonostante la sua dignità, continua ad essere una creatura, dipendente da Dio. In questo senso, il primo stato che definisce l'uomo non è la sua libertà, bensì la sua dipendenza di Dio.
Il testo biblico espone abilmente la natura della tentazione: si tratta di un "stimolo alla libertà umana ad accondiscendere al peccato, per l'attrazione che l'uomo sente verso se stesso". È uno impulso che si presenta in modo attraente: il frutto dell'albero era appetitoso e "gradevole", ma quell'invito nasconde un inganno, una bugia: "sarete come dei". La tentazione sembra che dica all'uomo: "acconsenti" e sperimenterai felicità; "non resistere e sarai felice"; non ti resta altra strada che abbandonarti all'impulso"; "non hai abbastanza forza per resistere". In ogni caso, la tentazione mette alla prova all'uomo, lo espone al confronto, alla lotta. Le conseguenze della caduta dei nostri progenitori sono drammatiche: portano il peccato e la morte nel mondo. L'uomo si scopre nudo, incapace di dominare le sue tendenze disordinate, e di resistere al male che si annida nel suo intimo e non può avere la propria origine in Dio, il suo creatore. L'uomo è caduto in un abisso, che non sembra conoscere fine. Gesù Cristo, uomo e Dio vero, sperimenta nel deserto la tentazione: l'invito del demonio a non seguire la volontà del Padre, e a cedere alle proposte di un messianismo diverso da quello che il Padre gli indicava. Senza dubbio questa pagina del vangelo è una delle più sublimi, perché dimostra la piena umanità di Cristo che soffre la tentazione. "L'essere tentato è parte del suo essere uomo, del suo discendere in comunione con noi, nell'abisso della nostra miseria". Allo stesso tempo dimostra la sconfitta del nemico.
"Il passaggio delle tentazioni riassume in sintesi tutta la lotta di Gesù: qui è messa alla prova l'essenza della sua missione, ma al contempo si mette alla prova il giusto ordine della vita umana, il cammino dell'essere umano e quello della storia.
Si tratta, insomma di mettere in rilievo quel che importa nella vita, che è il "primato di Dio". Il cuore di ogni tentazione è di lasciare da parte Dio che, accanto a tutte le cose che ci premono nella nostra vita, ci appare come qualcosa di secondario (Card Joseph Ratzinger, L'Osservatore Romano, 7 marzo 1997, p.6).
L'utilità della tentazione
Per esperienza sappiamo cos'è la tentazione: una prova, un momento di rischio dal quale possiamo uscire vittoriosi, ma dove possiamo pure cadere sconfitti. È messa alla prova la nostra adesione a Dio. Perciò, la tentazione ci si presenta come una sorta di sofferenza, come un momento di lotta e combattimento spirituale.
Così, vorremmo essere immuni dalla tentazione e, nell'opinione popolare, è considerata un male. Tuttavia, se guardiamo più a fondo, la tentazione ci offre un'occasione di manifestare l'amore, è un momento di lotta per l'amato. L'uomo ha l'opportunità di dimostrare la sua adesione incondizionata a Dio, al di sopra delle sofferenze, esprime la sua condizione di creatura davanti a Dio creatore e si sottomette umilmente alla sua volontà. Forse, non c'è, nella vita di un uomo, un momento più grande di quello in cui, divenendo sordo alle lusinghe del demonio, aderisce incondizionatamente al suo creatore. Quel che prima si presentava come occasione di rovina spirituale, si trasforma, con l'aiuto della grazia e della ferma determinazione dell'uomo, in motivo di crescita spirituale.
L'uomo si abbandona davvero nelle mani di Dio con un atto di fede, amore e speranza senza limiti.
Chi vince la tentazione dice a Dio: "Signore, sei Tu il mio unico bene", "Per me, il bene è stare unito a Dio". Sant'Agostino scriveva pure: "Se in lui fummo tentati, in lui vinceremo il diavolo. Ti fissi sul fatto che Cristo fu tentato, e non vedi che ha vinto la tentazione? Riconosci te stesso tentato in lui, e riconosciti vittorioso in lui. Avrebbe potuto ostacolare l'azione tentatrice del diavolo; ma allora tu che sei soggetto alla tentazione, non avresti imparato da lui a vincerla".
La tentazione di vedere Dio come nemico.
Questa tentazione è più comune di quanto potrebbe apparire a prima vista.
È la tentazione di vedere la norma morale come ostacolo alla felicità umana.
Come se Dio fosse geloso della felicità umana. Questo stesso pensiero lo suggerì il demonio già nel paradiso. Molti fedeli pensano che le norme della Chiesa sulla vita coniugale, sulla disciplina ecclesiastica, sulle relazioni prematrimoniali e la contraccezione, sul rispetto della vita dal momento del suo concepimento fino a quello del suo termine naturale siano una specie di imposizione che impedisce all'uomo di vivere e realizzarsi nella felicità. Questa è una grande tentazione.
Ed è pure una grande sfida, mostrare a tutti la bellezza del Piano di Dio, e far vedere che solo in una vita basata sulla Legge di Cristo l'uomo trova la sua pienezza.


LA QUARESIMA


STORIA, SPIRITUALITÀ, LITURGIA

QUARESIMA: TEMPO DELLA GRAZIA

“Tu ci guidi nell’Esodo nuovo,

alla gioia profonda di Pasqua:

dalla morte passando alla vita,

giungeremo alla terra promessa.”
Questi versi di un inno quaresimale rappresentano l’intensità di un’appartenenza a Cristo, riconoscimento grato di tutto ciò che ci ha dato; domanda umile, perché, a partire da questa grazia, il nostro cuore, la nostra libertà, e la nostra affezione sappiano incominciare a corrispondergli.

L’inizio della corrispondenza è anch’essa una grazia che si deve chiedere e perciò la preghiera è il gesto supremo dell’intelligenza e dell’affezione; è il gesto con il quale riconosciamo Cristo presente in mezzo a noi e a Lui chiediamo di condurre a compimento ciò che ha iniziato.

La vita cristiana è un cammino; è il cammino che sperimenta nelle profondità di ogni istante questo inaudito aprirsi della vita sotto la morte. Cristo ci fa vivere la vita come un continuo passaggio. Passare continuamente dalla morte alla vita conferma il nostro cammino, rende forte il cuore, rende viva l’intelligenza, rende certa la speranza, ci fa partecipi di una vittoria già accaduta ma sempre da conquistare e Cristo ci permette di conquistarla ogni giorno.

La preoccupazione pedagogica ed educativa della Quaresima è di indurci a vivere la fede, vale a dire il riconoscimento dell’esperienza storico-salvifica di Cristo, in modo sempre più reale, sempre più in profondità nella coscienza di ciò che è accaduto.

La Quaresima, infatti, è il momento in cui il cuore della Chiesa e quindi il cuore di ciascuno di noi deve vivere la grande conversione dell’intelligenza che ha vissuto lo stesso Signore Gesù Cristo nel suo cammino di maturazione.

Per Gesù il Padre era tutto e l’opera gli aveva dato da compiere era tutto. Egli non poteva immaginare se stesso prescindendo dal Padre.

Questo periodo liturgico, dunque, ci consente di approfondire la coscienza della nostra vocazione cristiana in modo che il cuore, su questo riconoscimento dell’intelligenza, assista e generi la nostra esistenza davanti ad ogni circostanza e in ogni istante della nostra vita. Proprio questo è il paradosso: la moralità nasce per grazia di Dio e per potenza dello Spirito; ma, allo stesso tempo, è qualcosa a cui partecipiamo e in qualche modo generiamo come il frutto più segreto, più bello e più profondo della nostra affezione.

La Quaresima è un momento pedagogico, in cui conosciamo realmente la vita di Cristo e ciò che gli accaduto; e, comprendendolo, lo viviamo nella concretezza della nostra libertà. La Quaresima ci chiede di imparare a vivere e a maturare ogni istante della nostra vita. “La salvezza è più vicina ora di quando abbiamo cominciato a credere” (Rm 13,11), dice S. Paolo. Cosa significa? Cristo è sempre davanti a noi, ci coinvolge sempre nell’evento positivo della sua storia; Egli non cambia, non si fa più vicino o più lontano a suo piacimento: è l’impegno che noi prendiamo con Lui che ce lo rende più vicino o più lontano. Diventa sempre più vicino l’evento della sua salvezza se l’atteggiamento dell’intelligenza e del cuore matura, se tale evento ci coinvolge realmente e non solo emozionalmente; se coinvolge la nostra capacità di bene, di dedizione, il nostro amore per Lui.

 

 

 PREMESSA

Il Concilio Vaticano II ha prescritto: “il duplice carattere della Quaresima che, soprattutto mediante il ricorso o la preparazione del Battesimo e mediante la penitenza, dispone i fedeli alla celebrazione del mistero pasquale con l’ascolto più frequente della Parola di Dio e la preghiera più intensa, sia posto in maggiore evidenza tanto nella Liturgia quanto nella catechesi liturgica” (S.C. 109).

 

 

 

ORIGINE E STORIA

Il tempo di Quaresima decorre dal Mercoledì delle Ceneri fino alla Messa della Cena del Signore, nel Giovedì Santo, esclusa.

Il cammino quaresimale si è formato in tre tappe:


1.       Nella prima fase, il digiuno ascetico, che precedeva il triduo pasquale, era già previsto dal Concilio di Nicea del 325, come valore simbolico, ad imitazione dei quaranta giorni del digiuno di Gesù, dei 40 giorni del diluvio, dei 40 giorni di Mosè sul Sinai, dei 40 giorni di Elia verso l’Oreb, dei 40 giorni di predicazione di Giona a Ninive, dei 40 anni di prova di Israele nel deserto;


2.       Nella seconda fase, furono aggiunte, nel secolo VI, altre tre settimane alle sei precedenti la Pasqua: una specie di “pre-quaresima”, composta di due settimane e mezzo prima del Mercoledì delle Ceneri; però senza digiuno ma con il colore viola e l’omissione del Gloria, dell’Alleluia e del Te Deum.

          La prassi del digiuno antico si limitava ad un pasto serale e all’astensione dalla carne e dal vino; e, in seguito con l’astensione dai latticini. In questa seconda fase occorre ricordare anche le tappe antiche del catecumenato, che preparava al battesimo pasquale, nella solenne veglia del sabato notte. Infatti, questo tempo battesimale si integrava con l’altro tempo della preparazione dei penitenti alla riconciliazione del giovedì santo a Roma.


3.       La terza fase è caratterizzata dal rito dell’imposizione delle ceneri al Mercoledì, che originariamente era riservato ai peccatori pubblici; ma dopo che la penitenza pubblica, nel secolo X, cadde in disuso, tale rito fu esteso a tutti i fedeli e, nel secolo XII, di fatto si estese a tutta la Chiesa occidentale con la preparazione di bruciare rami di palma e di olivo per ottenere le ceneri.

         
Circa la data della celebrazione della Pasqua, Eusebio scrive che nel II secolo, si celebrava questa festa in Oriente il 14 di Nisan, in qualunque giorno della settimana.

          Il Concilio di Nicea, nel 325, prescrisse che la Pasqua venisse celebrata nella domenica successiva al primo plenilunio di primavera.

          La celebrazione della Pasqua nei primi tre secoli della vita della Chiesa non aveva un periodo di preparazione. Ci si limitava ad un digiuno compiuto nei due giorni precedenti.

          La Comunità cristiana viveva così intensamente l’impegno cristiano fino alla testimonianza del martirio, da non sentire la necessità di un periodo di tempo per rinnovare la conversione già avvenuta col Battesimo. Essa prolungava, però, la gioia della celebrazione pasquale per cinquanta giorni (la Pentecoste). Quando si è registrata una minore tensione nell'impegno di vita cristiana dopo la pace di Costantino, si è cominciato ad avvertire la necessità di un congruo periodo di tempo per richiamare i fedeli ad una maggiore coerenza al Battesimo. Nascono così le prescrizioni riguardanti un periodo di preparazione alla Pasqua. Tuttavia, “un’osservanza preparatoria alla Pasqua” — fa notare I. Schuster — “prima ancora che dai canoni conciliari, dovè nascere dal senso stesso e dal genio soprannaturale del cristianesimo”. In Oriente troviamo i primi accenni a un periodo prepasquale, come preparazione spirituale alla celebrazione del grande mistero, all'inizio del IV secolo. Sant’Atanasio nelle “lettere pasquali” (tra il 330 e il 347), San Cirillo di Gerusalemme nelle “Protocatechesi” e nelle “Catechesi mistagogiche” (347) parlano di questo periodo come di cosa nota. Eusebio (340) nel “De solemnitate paschali” parla del “quadragesimale exercitium...sanctos Moysen et Eliam imitantes”. In Occidente abbiamo testimonianze dirette soltanto alla fine del IV secolo. Ne parlano Eteria (340) nel suo Itinerarium per la Spagna e l'Aquitania; Sant’Agostino per l'Africa e sant’Ambrogio (369) per Milano. Non è dato sapere con certezza dove, per mezzo di chi e come sia sorta la Quaresima, soprattutto a Roma; sappiamo solo che si è andata formando progressivamente. Essa ha una preistoria, collegata a una prassi penitenziale preparatoria alla Pasqua che ha cominciato ad affermarsi fin dalla metà del II secolo. Fino al IV secolo, l'unica settimana di digiuno era quella che precedeva la Pasqua. A metà del IV secolo si trovano aggiunte, a questa settimana, altre tre settimane per comprendere poi complessivamente quattro settimane. L'uso di iscrivere i peccatori alla penitenza pubblica quaranta giorni prima di Pasqua determinò la formazione di una “quadragesima” (quaresima) che cadeva nella sesta domenica prima di Pasqua. Dal momento poi che non si celebrava un rito penitenziale in giorno di Domenica, si fissò questo atto al mercoledì precedente. Ogni mercoledì, infatti, era giorno “stazionale” e quindi di digiuno. Così è nato il “mercoledì delle Ceneri”. Dalla fine del IV secolo la struttura della Quaresima è quella dei “quaranta giorni”, considerati alla luce del simbolismo biblico che dà a questo tempo un valore salvifico - redentivo, di cui è segno la denominazione “sacramentum”. Quando nei secoli VI e VII si è allargato questo tempo liturgico a cinquanta, sessanta e settanta giorni, ciò è avvenuto per accentuarne l'indole penitenziale a scapito dell'indole pasquale.

          Contemporaneamente, infatti, si rompe l'unità del Triduo pasquale che viene fatto gravitare sull'aspetto della passione di Cristo. Si può, quindi, concludere che allo sviluppo della Quaresima abbia contribuito prima di tutto la pratica del digiuno in preparazione alla Pasqua, poi la disciplina penitenziale alla quale, fin dal 306, accenna l’Epistula canonica di S. Pietro Alessandrino; infine le esigenze sempre crescenti del catecumenato con la preparazione immediata al Battesimo, celebrato nella notte di Pasqua. Il ricco contenuto teologico della Quaresima è determinato dalla sua finalizzazione alla celebrazione della Pasqua. Questo tempo, infatti, fa già parte del “paschale sacramentum” e può essere inteso soltanto alla luce del momento culminante del suo punto di arrivo: la Veglia pasquale. L'inizio dei quaranta giorni di penitenza, nel Rito romano, è qualificato dall'austero simbolo delle Ceneri, che contraddistingue la liturgia del Mercoledì delle Ceneri. Appartenente all'antica ritualità con cui i peccatori convertiti si sottoponevano alla penitenza canonica, il gesto di coprirsi di cenere ha il senso del riconoscere la propria fragilità e mortalità, bisognosa di essere redenta dalla misericordia di Dio. Lontano dall'essere un gesto puramente esteriore, la Chiesa lo ha conservato come simbolo dell'atteggiamento del cuore penitente che ciascun battezzato è chiamato ad assumere nell'itinerario quaresimale. I fedeli, che accorrono numerosi per ricevere le Ceneri, devono essere aiutati a percepire il significato interiore implicato in questo gesto, che apre alla conversione e all'impegno del rinnovamento pasquale. Nonostante la secolarizzazione della società contemporanea, il popolo cristiano avverte chiaramente che durante la Quaresima bisogna orientare gli animi verso le realtà che veramente contano; si richiede impegno evangelico e coerenza di vita, tradotta in opere buone, in forme di rinuncia a ciò che è superfluo e voluttuario, in manifestazioni di solidarietà con i sofferenti e i bisognosi. La Parola di Dio, annunciata nel tempo quaresimale, è l'elemento fondamentale per comprendere il senso cristiano dei quaranta giorni e dei segni liturgici penitenziali.


LA QUARESIMA “SACRAMENTO”

I testi degli antichi sacramentari parlano della Quaresima come di un “sacramento”. Il Messale italiano traduce “segno sacramentale della nostra conversione”. Senza forzare il senso del termine “sacramentum”, così oscillante nell'uso della Chiesa antica, applicato alla Quaresima, lo possiamo intendere nel senso patristico da cui deriva l'uso liturgico. La Chiesa vive questo tempo di quaranta giorni come azione strutturata in gesti e parole il cui significato è dato dalla Parola di Dio e dalla presenza operante di Cristo. Tutta l'azione sacra compiuta dalla comunità cristiana, riunita in assemblea liturgica, è “sacramento”, vale a dire segno degli eventi salvifici culminati in Cristo. La Quaresima, nel suo insieme di parola che annuncia gli eventi di salvezza, riti e pratiche ascetiche, è un grande segno sacramentale, mediante il quale la Chiesa partecipa nella fede-conversione al mistero di Cristo che per noi fa l'esperienza del deserto, digiuna, è vittorioso della tentazione, scegliendo la via del messianismo umile e sofferente fino alla croce. La Quaresima, di conseguenza, ha un carattere cristico - sacramentale - ecclesiale perché è celebrazione liturgica e, come tale, è azione di Cristo e della Chiesa sua sposa. Quando la Liturgia parla di “sacramento pasquale” vi include non solo la morte-risurrezione del Signore col dono dello Spirito, ma anche la Quaresima come segno del primo versante del mistero pasquale. In questo tempo Cristo, in modo tutto particolare, “dà tutto se stesso per la Chiesa sua sposa, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell'acqua mediante la Parola. Così Egli vuole che la Chiesa compaia davanti a Lui tutta gloriosa, senza macchia ne ruga, o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).

L’impegno ascetico quaresimale non è uno sforzo volontaristico per conquistare la santità, ma una risposta con la quale il cristiano, sorretto dall'aiuto di Dio, mantiene e perfeziona con la vita la santità ricevuta nel Battesimo della fede (LG 40). Questa visione teologica giustifica il senso con cui la Quaresima e il digiuno sono chiamati “sacramenti”. Essi sono segni di grazia, la cui efficacia deriva dal fatto di rendere presente il valore salvifico dei quaranta giorni di digiuno passati da Cristo nel deserto. La Liturgia, allora, parla di “veneranda solennità del digiuno” quale inizio del tempo sacramentale della Pasqua e pone l'atto dei digiunare in rapporto all'iniziativa di Dio: “Con il digiuno quaresimale, per mezzo di Cristo, Tu, o Dio, vinci le nostre passioni, elevi lo spirito, infondi la forza e doni il premio” (1V Prefazio di Quaresima).


DIMENSIONE BATTESIMALE, PENITENZIALE ED ECCLESIALE DELLA QUARESIMA

Cristo ci ha radicalmente trasformati, cioè convertiti, riconciliati con il Padre e tra noi, inserendoci nel suo mistero pasquale con il Battesimo.

La penitenza, in senso cristiano, è fondata sulla stessa realtà battesimale ed è poi ripresa e sacramentalizzata, da quanti ricadono nel peccato dopo il battesimo; Battesimo e Penitenza sono così i “misteri” propri della Quaresima. Questo tempo liturgico, perciò, non solo prepara i catecumeni al battesimo e i fedeli a rinnovare le promesse nella notte pasquale, ma è il tempo nel quale la Chiesa e i singoli suoi membri sono chiamati a vivere le esigenze intrinseche di questo sacramento mediante una più profonda e progressiva conversione. La Chiesa, infatti, è una Comunità battesimale non solo perché si forma mediante il battesimo, ma anche e soprattutto perché vive quella dinamica di continua conversione che ha il suo principio nel battesimo.

La Quaresima è il tempo della grande convocazione di tutta la Chiesa perché si lasci purificare da Cristo suo sposo. Significativa, in questo senso, la lettura del profeta Gioele (2, 12-18) nel Mercoledì delle Ceneri. Mentre Cristo, santo, innocente, senza macchia non conobbe peccato e venne ad espiare i soli peccati del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, è santa, ma bisognosa sempre di purificazione, mai tralascia, soprattutto in questo tempo, di far penitenza e di rinnovarsi.(LG 8). Inoltre, come “per arcano e misericordioso mistero della divina Provvidenza, gli uomini sono uniti fra di loro da uno stretto rapporto soprannaturale, in forza del quale il peccato di uno solo reca danno a tutti e a tutti porta beneficio la santità del singolo; così la penitenza ha sempre come effetto la riconciliazione non solo con Dio, ma anche con i fratelli, che a causa del peccato sempre hanno subito un danno. Non di rado, gli uomini si collegano nel commettere ingiustizia, è giusto quindi che siano solidali anche nel fare penitenza; liberati così dal peccato per la grazia di Cristo, potranno essere nel mondo, insieme con tutti gli uomini di buona volontà, operatori di giustizia e di pace". Il Concilio Vaticano Il ricorda che: "La penitenza quaresimale non deve essere interna ed individuale, ma anche esterna e sociale” (SC 110). Durante la Quaresima tutta la Chiesa è anche chiamata, in quanto popolo sacerdotale e sacramento di salvezza, ad impegnarsi, sia pure in modo diverso, nell'opera di riconciliazione, che dal Signore le è stata affidata. Non solo la Chiesa chiama gli uomini alla penitenza mediante l'annuncio del Vangelo, ma intercede anche per i peccatori; soprattutto essa diventa strumento di conversione e di perdono nel sacramento della Penitenza. 


LA SPIRITUALITÀ DELLA QUARESIMA

La spiritualità della Quaresima, appare nel suo carattere essenzialmente cristocentrico, pasquale e battesimale. Questo tempo liturgico è come un cammino di fede-conversione a Cristo che si fa servo obbediente al Padre fino alla morte di croce.

La Quaresima è il “tempo favorevole” per la riscoperta e l'approfondimento dell'autentico discepolo di Cristo. Gesù non si conosce “dal di fuori”, ma per condivisione di vita. La conversione cristiana, la “metànoia” evangelica, non è semplicemente una conversione morale, ma è conversione a Dio come si rivela nelle scelte messianiche di Cristo; diversamente non si pensa secondo Dio ma secondo gli uomini. Sul piano della vita si esige, di conseguenza, quel cambiamento intimo e radicale, per effetto del quale l'uomo comincia a pensare, a giudicare e a riordinare la sua vita, mosso dalla santità e dalla bontà di Dio, come si è manifestata ed è stata data a noi in pienezza dal Figlio suo. Il cristiano vive, così, continuamente quel processo di conversione, che ha per principio vitale lo Spirito di Cristo e del Vangelo. La Quaresima diventa, allora, scuola vitale di purificazione e di illuminazione perché si vivono le parole di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo”. Questa è la sostanza della spiritualità quaresimale - battesimale. L’aspetto più profondo della spiritualità della Quaresima consiste nella partecipazione sacramentale al mistero pasquale di Cristo nei suoi due momenti di passione per giungere alla risurrezione. Sant’Agostino nel commento al Salmo 148, 1-2 dice: “E' fruttuoso per noi perseverare nel desiderio fino a quando ci giunga ciò che è stato promesso e così passi il gemito e gli subentri solo la lode. La storia del nostro destino ha due fasi: una che trascorre ora in mezzo alle tribolazioni e tentazioni di questa vita, l’altra che sarà nella sicurezza e nella gioia eterna. Per questo motivo è stata istituita per noi anche la celebrazione dei due tempi, cioè quello prima di Pasqua e quello dopo Pasqua. Il tempo che precede la Pasqua raffigura la tribolazione nella quale ci troviamo; invece quello che segue la Pasqua rappresenta la beatitudine che godremo. Ciò che celebriamo prima di Pasqua è anche quello che operiamo; ciò che celebriamo dopo Pasqua indica quello che ancora non possediamo. Per questo trascorriamo il primo tempo in digiuno e preghiere. L’altro, invece, dopo la fine dei digiuni lo celebriamo nella lode. Ecco perché cantiamo: Alleluia. Infatti in Cristo, nostro capo, è raffigurato e manifestato l'uno e l'altro tempo. La passione del Signore ci presenta la vita attuale con il suo aspetto di fatica, di tribolazione e con la prospettiva certa della morte. Invece la risurrezione e la glorificazione del Signore sono annuncio della vita che ci verrà donata”.

La spiritualità della Quaresima è caratterizzata, inoltre, da un più attento e prolungato ascolto della Parola di Dio perché è questa Parola che illumina a conoscere i propri peccati, chiama alla conversione e infonde fiducia nella misericordia di Dio. L'esame di coscienza del cristiano non è un ripiegamento su se stessi, ma un aprirsi alla parola della salvezza, a un confronto con il Vangelo. La Parola di Dio, infine, aiuta a cogliere il male del peccato nella prospettiva dell'alleanza, cioè di quel misterioso rapporto sponsale di amore fra Dio e il suo popolo.

Il peccato, sulla bocca dei profeti, è denunciato come tradimento o infedeltà coniugale. Gesù, venuto per cercare i peccatori, rivela il cuore buono del Padre che ama, attende, e per primo, dà l'abbraccio della riconciliazione.

La spiritualità quaresimale deve portare a vivere con più intensità e profondità il rapporto di amore interpersonale con Dio, a sentire il peccato prima di tutto come offesa di Dio e rottura di amicizia con Lui; e un atteggiamento di condivisione dell'amore misericordioso e della gioia del Padre per i fratelli che ritornano convertiti.


LE OPERE DELLA PENITENZA QUARESIMALE

Le opere della penitenza quaresimale vanno compiute nella consapevolezza di fede del loro valore sacramentale, cioè come partecipazione del mistero di Cristo.

IL DIGIUNO

Il digiuno, anche se limitato, nella legge attuale della Chiesa, al mercoledì delle Ceneri e al venerdì santo, e l’astinenza dalle carni ad ogni venerdì, devono esprimere l'intimo rapporto che passa tra questo segno esterno penitenziale e la conversione interiore. La Liturgia quaresimale è un continuo richiamo a superare il formalismo; sarebbe inutile astenersi dai cibi se non ci si astenesse dal peccato. Tutta l'ascesi quaresimale, che ha nel digiuno una sua tipica espressione, non si limita però a questa pratica, ma si allarga ad un'ascesi che tende a rimarginare la ferita inferta alla dignità della nostra natura dall'intemperanza con la medicina di una salutare astinenza in tanti altri settori. L'uomo viene così purificato dai vizi e dai peccati e condotto al ricupero della sua dignità e del suo equilibrio interiore, in una parola alla vita nuova, frutto della Pasqua di Cristo. Nella Liturgia quaresimale appare che il cristiano non è chiamato a disprezzare il corpo e la realtà mondana né a fermarsi a quel tipo di mortificazione e di ascesi sul piano semplicemente umano, sempre necessaria per creare una condizione di unità e di equilibrio nella sua vita fisica, psicologica e morale. L'ascesi cristiana non può mai essere espressione di un volontarismo ascetico teso ad accaparrarsi Dio. L'ascesi cristiana, alla luce dei testi biblici, ha per principio l’intervento di Dio in Cristo che, con il dono del suo Spirito, ci rinnova interiormente, facendo morire in noi il peccato perché viviamo una vita tutta nuova. Il cristiano accetta la faticosa lotta al peccato con la mortificazione per allargare sempre più gli spazi all'iniziativa di Dio che ci rinnova con la Pasqua di Cristo. Si tratta di “fare la verità per andare verso la luce, perché appaia chiaramente che le nostre opere sono fatte in Dio” (Gv 3,21). L’ascesi cristiana appare, conseguentemente, soprattutto come “povertà del cuore”, totale disponibilità interiore al Dio vivo che non ci chiede tanto l'offerta di cose, bensì l'offerta delle nostre persone.

LA PREGHIERA

La Quaresima è tempo di più assidua e intensa preghiera, intesa nella sua autenticità evangelica profonda, cioè partecipazione alla preghiera di Cristo. Le “Premesse alla Liturgia delle Ore” affermano: “In questo sta la dignità della preghiera cristiana, che essa partecipa dell'amore del Figlio unigenito per il Padre e di quell’orazione, che Egli durante la sua vita terrena ha espresso con le sue parole e che ora, a nome e per la salvezza di tutto il genere umano, continua incessantemente in tutta la chiesa e i tutti i suoi membri”. Questa preghiera è inscindibilmente legata a quella conversione, che permette spazi sempre più vasti all'iniziativa di Dio. La preghiera cristiana, così intesa, non è, non può essere in alcun modo, il tentativo di assoggettare Dio per averlo garante dei propri progetti, ma è disponibilità piena alla divina volontà.

La preghiera del singolo e della Comunità cristiana, che si esterna nell'espressione della lode, del rendimento di grazie e della domanda, dev'essere la concretizzazione del "sacrificio dello Spirito", cioè della piena offerta di sé a Dio. Se il contenuto del sacrificio è lo spirito dell'uomo che si dona alla volontà del Signore, la preghiera sarà il segno manifesto e non sostitutivo dello spirito che si mette in posizione di offerta.

La preghiera, soprattutto nel tempo quaresimale, va fatta anche comunitariamente per significare che tutta la Chiesa è, essenzialmente comunità orante e perciò stesso anche penitente.

LA CARITÀ

La Quaresima è il tempo di più forte impegno di carità verso i fratelli. La Liturgia parla di “assiduità operosa”, di “una vittoria sul nostro egoismo che ci renda disponibili alle necessità dei poveri”. La vera ascesi richiesta dai testi biblici e liturgici della Quaresima è quella della giustizia e della carità. Non c'è vera conversione a Dio senza conversione all'amore fraterno. La privazione, cui il cristiano è chiamato durante la quaresima anche con il digiuno corporale, esige che sia sentita come esigenza della fede a rendersi operante nella carità verso i fratelli. Il digiuno, infatti, non ha tanto significato in sé, ma dev’essere un segno di tutto un atteggiamento di giustizia e carità.


QUARESIMA: PERCORSO LITURGICO

Il Concilio Vaticano II, nel riordinare il percorso quaresimale, ha disposto che sia le letture evangeliche sia quelle dell'Antico Testamento fossero organizzate in tre cicli:

LETTURE EVANGELICHE:

1. Ciclo A:     è strutturato sulla linea battesimale (3a Domenica: la samaritana; 4a Domenica: il cieco nato; 5a Domenica: la risurrezione di Lazzaro).

2. Ciclo B:     è sulla linea cristologica - pasquale, poiché - sempre nelle tre Domeniche - si presentano tre segni evocanti il senso della Passione del Cristo (3a Domenica: il nuovo tempio; 4a Domenica: il segno del serpente; 5a Domenica: il chicco di grano).

3. Ciclo C:     la linea è di carattere penitenziale, poiché il richiamo alla conversione è espresso nelle tre Domeniche caratterizzate con tre temi (3a Domenica: la pazienza di Dio in attesa della conversione con i due episodi di calamità; 4a Domenica: la parabola del figlio prodigo; 5a Domenica: il perdono all’adultera).

Per le prime due domeniche le tematiche sono comuni ed invariate, pur con l'estensione della tematica a tutti i cristiani, dando un'accentuazione più cristologica ai Vangeli delle tentazioni di Gesù nel deserto ed alla Sua Trasfigurazione.

LETTURE DALL’ANTICO TESTAMENTO 

Per meglio comprendere questa struttura, occorre rifarsi alla linea diacronica, secondo cui le letture dell'Antico Testamento si riferiscono alla storia della salvezza, che è uno dei temi specifici della catechesi quaresimale.

1.       ANNO A: le tappe principali del cammino del popolo di Dio anche con l'evidenza del senso di queste articolazioni del piano divino (La creazione ; la chiamata di Abramo ; l’acqua dalla roccia ; l’elezione di Davide ; la resurrezione per mezzo dello Spirito di Dio );

2.       ANNO B: l'iniziativa dell'alleanza, che parte sempre da Dio e che Egli fa con l'essere umano (l’alleanza con Noè ; l’alleanza con Abramo ; l'alleanza con il popolo ebreo per mezzo della legge del Decalogo ; la ripresa dell'alleanza dopo l'esilio ; l'alleanza nuova nello Spirito );

3.       ANNO C: l’evento dell'esodo pasquale viene scandito nelle sue cinque risposte di fede dal popolo di Dio (la risposta di grazie a Dio da parte del popolo ebreo ; la risposta di Abramo ; la risposta di Mosè ; la celebrazione della prima Pasqua ; il ritorno dall'esilio come esodo inatteso e nuovo).

La riforma del Vaticano II ha semplificato la struttura della quaresima, sovraccaricata dalle aggiunte della pre-quaresima, secondo queste linee:

a)       con l'accentuazione della caratterizzazione battesimale nel primo ciclo delle letture domenicali;

b)       con la denominazione delle singole sei domeniche con sei profeti relativi ai Vangeli;

c)       con la pausa nella 4a Domenica, detta “Laetare”;

d)       con la soppressione, dalla 1a Domenica alla 5a Domenica, dell’uso di velare le immagini sacre; riservando tale uso solamente dalla 6a Domenica (quella della Passione nelle Palme);
e)       con il ristabilire la processione già nota nel IV secolo in Gerusalemme, secondo il racconto della pellegrina Eteria ed in uso in Occidente solo dal secolo VIII;

f)        con il riordinamento del lezionario festivo e feriale, che rispetti l'unità tematica fra le tre o le due letture;

g)       con la possibilità dì compiere anche fuori della Messa (Liturgia della Parola) il rito del Mercoledì delle Ceneri;

h)       con l'accentuazione dell'unità interna della Quaresima: dando così un chiaro orientamento pasquale al ciclo delle sei settimane, dove il segno sacramentale della nostra conversione diventa senso profondo della penitenza quaresimale.


LA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE

Rappresenta l’inizio della Settimana Santa.

Ebbe origine, secondo quanto riportato dalla pellegrina Eteria, circa nel 400 d.C. in Gerusalemme. Si diffuse nel X secolo in Spagna, in Gallia e a Roma. La liturgia prevede due momenti:

1)       la commemorazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme;

2)       la Celebrazione Eucaristica e il racconto della Passione.

La Processione è importante perché esprime il cammino della Chiesa di oggi sulle orme del Cristo crocifisso e risorto. Intende anche esprimere l’unità e l’unicità della Chiesa e del Popolo di Dio in cammino verso la Gerusalemme del cielo.

I cristiani sono chiamati ad esprimere, anche visibilmente, la volontà di formare un solo corpo nel Signore Gesù. Si tratta, in pratica, di esprimere la natura e la missione della Chiesa.

Perché s'indossano i paramenti liturgici di colore rosso? Il colore rosso, sia nella cultura occidentale che in quella orientale, assume il significato simbolico del Sangue e anche della Vita, che nasce dal sacrificio .

Il rosso è anche il colore della regalità . Il colore rosso richiama quindi la regalità conquistata da Gesù con il sacrificio sulla Croce. Lo si usa, infatti, anche nelle memorie dei martiri e nella Pentecoste. I rami di ulivo, conservati, richiamano alla mente dei fedeli la vittoria di Cristo, celebrata con la stessa processione; e sono segno di unione con Cristo stesso. Molteplici sono i richiami simbolici dell’ulivo:

È il segno della nuova alleanza di Dio con gli uomini in Cristo, dopo il diluvio;

È il simbolo della nuova Gerusalemme, secondo la visione di Isaia 2,1ss.;

-è il simbolo della Sapienza di Dio;

-è simbolo, per S. Paolo, della Grazia;

-è simbolo, nell’Apocalisse, dei profeti e dei testimoni.

GIOVEDÌ SANTO - MESSA DEL CRISMA

Questa Celebrazione Eucaristica è detta Crismale perché il Vescovo consacra il Crisma (olio e balsamo) da utilizzare nel Battesimo, nella Cresima e nell’ordinazione di Sacerdoti e Vescovi. Oltre al Crisma il Vescovo benedice l’olio dei catecumeni (battezzandi), che si usa nel Battesimo e l’olio degli infermi per il sollievo di coloro che sono provati nel corpo e nello spirito. L’olio è un segno biblico. Colui che è consacrato viene unto, come il Messia. È un alimento promesso da Dio , che ne sottolinea quindi la benevolenza. Nei profeti , è metafora della forza di Dio e del Suo perdono . È fonte di luce e di fede ; è segno liturgico nei Sacramenti del Battesimo, Confermazione, Unzione degli Infermi e Ordine.

In questo stesso giorno si ricorda l’istituzione del sacerdozio da parte di Gesù; e per questo motivo tutti i sacerdoti rinnovano le promesse fatte la prima volta il giorno in cui sono stati ordinati sacerdoti.

TRIDUO PASQUALE

GIOVEDÌ SANTO

Il triduo pasquale si formò nel IV secolo. Da allora le celebrazioni liturgiche di questi tre giorni rappresentano, nel loro insieme, la vera e propria celebrazione annuale del mistero pasquale. Esso ha inizio dalla Messa “in coena Domini”, ha il suo fulcro nella veglia pasquale e termina con i Vespri della Domenica di Risurrezione.

SANTA MESSA IN COENA DOMINI

La liturgia vespertina del Giovedì Santo è caratterizzata dalla commemorazione dell'ultima Cena, durante la quale Gesù istituì l’Eucaristia; e del rito della lavanda dei piedi, svolto in quella circostanza: simbolo dell'amore di Gesù, che si esprimeva nel servizio. In questo giorno non si celebrano altre Messe tranne quella che il Vescovo celebra al mattino in cattedrale con tutti i sacerdoti La comunità cristiana comincia a celebrare il nucleo centrale della sua fede: Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. In questa Messa si celebra:

-L’istituzione dell’Eucaristia;

-L’istituzione dell’ordine sacerdotale;

-Il comando del Signore sulla carità fraterna.

La pellegrina Eteria racconta che nel secolo IV, in Gerusalemme, alla prima ora della notte (vale a dire alle ore 19,00), si celebrava, nella chiesa del Martyrium, dietro la Croce, una messa tutta speciale. La lavanda dei piedi (portata nel VII secolo in Spagna ed in Gallia e, solo nel XII secolo, nella liturgia romana) era il simbolo del servizio, inteso come iniziazione alla sequela totale di Cristo servo, e sia come segno di accoglienza. Concepita come solennità, al canto del Gloria si scioglievano le campane (il loro silenzio, dopo la Messa e fino al Gloria della Veglia pasquale, ebbe inizio nel secolo IX) poi, veniva riposto il Santissimo Sacramento. Al riguardo, è bene precisare che il luogo della reposizione del Santissimo Sacramento non è un sepolcro! E' solamente un luogo ove conservare il Pane eucaristico per la comunione del Venerdì Santo. La confusione al riguardo è nata verso la fine del Medioevo, allorché le celebrazioni del Triduo vennero anticipate al mattino, compresa la veglia Pasquale. Nel Medioevo era sorta la devozione di stare in preghiera per quaranta ore dopo l'adorazione della Croce al Venerdì. Anticipando la Veglia Pasquale al mattino, anche questa adorazione presso il “sepolcro” venne anticipata al Giovedì, dando così origine al malinteso.


VENERDÌ SANTO


Il Venerdì Santo, giorno della morte di Cristo (14 di Nisan), è, da tempo immemorabile, un giorno di lutto e di compartecipazione attraverso il digiuno. Le più antiche testimonianze di un digiuno al Venerdì e al Sabato Santo risalgono al Il secolo. Nel 1V secolo, in Occidente, secondo la testimonianza di S. Agostino, oltre ad una liturgia della parola si aveva anche l’adorazione della Croce. La pellegrina Eteria racconta che, nel IV secolo, nella Chiesa del Golgota, il Venerdì Santo, il Vescovo presentava al popolo il prezioso legno, e tutti sfilavano davanti alla Croce, s'inchinavano, la toccavano con la fronte e poi la baciavano. Questo rito approdò a Roma nell'anno 700.

La celebrazione oggi si svolge in tre momenti:

1)       Liturgia della Parola - Dopo la preghiera iniziale, si proclama la 1a lettura, tratta dal 4° canto del Servo di Jahwè , da sempre inteso come descrizione della passione redentrice di Cristo. Oltre al salmo 30, si proclama la 2a lettura, che è un’esaltazione del “grande, sommo sacerdote che divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono”. Infine, vi è il racconto della Passione secondo Giovanni, letto, oltre che dal sacerdote, anche da persone incaricate con ruoli suddivisi. Poi, si termina questo primo momento con la preghiera universale (composta da S. Giustino nel 150 ca.);

2)       Ostensione e Adorazione della Croce - Innanzitutto la Croce viene solennemente mostrata ai fedeli. Si porta all’altare la Croce velata e il sacerdote la scopre in tre momenti, ogni volta con le parole: “ecco il legno della Croce, a cui fu appeso il Cristo, salvatore del mondo”. L’assemblea risponde: “Venite adoriamo” e si inginocchia in preghiera silenziosa. La Croce viene poi collocata in vista dell'assemblea per iniziare l'adorazione della Croce che si fa venerando con la genuflessione e leggendo gli antichi brani biblici che la liturgia prevede in questa occasione.

3)       Santa Comunione - Dopo l’adorazione della Croce, l’altare viene ricoperto con una tovaglia. Il Santissimo Sacramento è riportato dal luogo della reposizione e, dopo il Padre nostro, si distribuisce la Santa Comunione. La preghiera del popolo conclude la liturgia.

VIA CRUCIS

La Via Crucis si rifà alle tradizioni evangeliche dei secoli XV - XVIII; e affonda le sue radici nei “sacri monti” che, alla fine del XV secolo, vennero costruiti per supplire ai pellegrinaggi nei Luoghi Santi, allora in possesso dei musulmani.

Nel 1731, Clemente XII fissò in quattordici il numero delle stazioni della Via Crucis.


SABATO SANTO

Il Sabato Santo, nella Chiesa antica, come giorno della sepoltura di Cristo, era considerato giorno aliturgico (ovvero senza una propria liturgia Eucaristica). Era un giorno di stretto digiuno e di lutto; e, in questo giorno, la riflessione dei fedeli era fortemente orientata alla morte e sepoltura di Cristo. In Occidente, nel secolo VIII, fu assunto come giorno di devozione mariana, poiché Maria, sola fra tutti, aveva conservato salda e intatta la propria fede.

Ci si prepara, spiritualmente, alla grande Veglia Pasquale; Veglia che, alla fine del IV secolo, sembra abbia richiesto l’intera notte, così che, nel giorno di Pasqua, non aveva più luogo un’altra liturgia. Verso la fine del secolo VI, è già evidente che la Messa della Veglia termina prima che apparisse la prima stella. La liturgia della notte pasquale si divide in quattro parti:

-Liturgia della luce;

-Liturgia della Parola;

-Liturgia battesimale;

-Liturgia Eucaristica.

LITURGIA DELLA LUCE

La liturgia della Luce comprende la benedizione del fuoco, l’accensione del Cero pasquale e l’illuminazione della chiesa con l’ingresso del Cero, simbolo di Cristo risorto.

La benedizione del fuoco è di origine franca; e sembra aver avuto fin dall’inizio lo scopo di sostituire i fuochi pagani di primavera, accesi in onore degli dei pagani per propiziare la crescita dei frutti della terra. Il cero pasquale ha sicuramente le sue radici più profonde nell'uso, esistente agli inizi a Roma e altrove, di rischiarare la notte pasquale con numerosi lumi. In essi si vedeva simbolizzato il Signore risorto dalla notte della morte.

LITURGIA DELLA PAROLA

Si proclamano letture dall’Antico Testamento, dalla creazione in poi, che ripercorrono le varie tappe della salvezza fino a Cristo. Al termine, il sacerdote intona il Gloria, mentre le campane della chiesa iniziano a suonare; dopo l'epistola, si canta, per la prima volta dopo tutta la Quaresima, l’Alleluia; e, infine, si proclama il Vangelo.

LITURGIA BATTESIMALE

Per la benedizione dell'acqua battesimale, il sacerdote immerge tre volte il Cero pasquale nell'acqua, dicendo: “Discenda, Padre, in quest’acqua, per opera del tuo Figlio, la potenza dello Spirito Santo”. A questo punto, è prevista la “rinnovazione delle promesse battesimali”, vale a dire la rinuncia al male e la professione di fede. I fedeli rispondono alle interrogazioni del sacerdote rispettivamente con un “rinuncio” e con un “credo”. Segue l’aspersione dell'assemblea con l'acqua benedetta, mentre si esegue un canto battesimale. Con la preghiera universale termina questa parte della Veglia pasquale.

LITURGIA EUCARISTICA

Nella prima preghiera Eucaristica, non solo si commemora l’evento salvifico pasquale, ma si fanno anche preghiere per coloro che Dio si è degnato di “fare rinascere dall'acqua e dallo Spirito Santo, accordando loro il perdono di tutti i peccati”. Nell'introduzione al rito della pace si ricorda quel saluto che Gesù, la sera della Domenica della resurrezione, diede ai suoi apostoli. La Veglia pasquale viene conclusa con la solenne benedizione finale e dal congedo arricchito da un duplice ALLELUIA.

 

CICLO A - LETTURE DELLE DOMENICHE

Periodo Antico Testamento Apostolo Vangelo

1a

Domenica

Gn 2. 7-9; 3, 1-7

Creazione e caduta

Rm 5, 12-19

Peccato e redenzione

Mt 4, 1-11

Tentazione di

Gesù Cristo

2a

Domenica

Gn 12, 1-4

Vocazione di Abramo

2 Tm 1, 8-10

La nostra vocazione

Mt 17, 1-9

La Trasfigurazione

3a

Domenica

Es 17, 3-7

Sete d'Israele e acqua della disperazione

Rm 5, 1...8

L'amore di Dio riversato

nei nostri cuori

Gv 4, 5-42

La Samaritana

4a

Domenica

1 Sam 16, 1...13

L'unzione di

Davide a re

Ef 5, 8-14

Risvegliati dai morti eilluminati

Gv 9, 1-41

La guarigione del cieco nato

5a

Domenica

Ez 37, 12-14

Aprirò le vostre tombe

e vi risusciterò

Rm 8, 8-11

Lo Spirito di Dio

abita in voi

Gv 11, 1-45

La risurrezione

di Lazzaro



CICLO B
- LETTURE DELLE DOMENICHE

Periodo Antico Testamento Apostolo Vangelo

1a

Domenica

Gn 9, 8-15

Il diluvio e l'Alleanza

1 Pt 3, 18-22

Il diluvio, tipo del Battesimo che salva

Mc 1, 12-15

La tentazione di Gesù

2a

Domenica

Gn 22, 1...18

Il sacrificio di Abramo

Rm 8, 31-34

Dio ha dato il

Suo Figlio per noi

Mc 9, 2-10

Questi è il Figlio

mi prediletto

3a

Domenica

Es 20, 1-17

La legge data a Mosè

1 Cor 1, 22-25

Cristo crocifisso,sapienza mascandalo

Gv 2, 13-25

Distruggete il tempio,

in tre giorni

lo farò risorgere

4a

Domenica

2 Cr 36, 14...23

Deportazione e

liberazione, ira e

misericordi di Dio

Ef 2, 4-10

Morti per i peccati,

risorti per la grazia

Gv 3, 14-21

Dio ha mandato il

suo Figlio per

salvare il mondo

5a

Domenica

Ger 31, 31-34

L'Alleanza nuova: Dio

dimenticherà il peccato

Eb 5, 7-9

Il Cristo obbediente

causa di salvezza

Gv 12, 20-33

Il chicco di grano

produce molto frutto



CICLO C
- LETTURE DELLE DOMENICHE

Periodo Antico Testamento Apostolo Vangelo

1a

Domenica

Dt 26,4-10

Fede del popolo

di Israele

Rm 10,8-13

Fede nel Cristo

Lc 4,1-13

Tentazione di Cristo

2a

Domenica

Gn 15,5…18

Fede di Abramo

e Alleanza

Fil 3,17-4,1

I nostri corpi

trasfigurati

Lc 9,28-36

Trasfigurazione di Cristo

3a

Domenica

Es 3,1…15

Il Signore libera

Il suo popolo

1 Cor 10,1…12

La strada del

deserto esempio per noi

Lc 13,1-9

Convertirsi o perire

4a

Domenica

Gs 5,9…12

La Pasqua celebrata

nella terra promessa

2 Cor 5,17-21

Riconciliati con Dio

nel Cristo

Lc 15,1…32

Il Figliol prodigo

5a

Domenica

Is 43,16-21

Non ricordare più

le cose passata: ecco

un mondo nuovo

Fil 3,8-14

Risorgere in Cristo

Gv 8,1-11

L’adultera perdonata

 

 



APPENDICE 

La Pasqua cristiana ha strettissime relazioni con quella ebraica. II termine deriva dall’ebraico “Pesah”, festa che coincideva con l'inizio della primavera. In Es. 12, 13 si presuppone il significato di “passaggio” o “il passare oltre” ed il riferimento al “passaggio” del popolo tenuto in schiavitù verso la libertà è immediato. Questa ricorrenza, sia liturgicamente sia teologicamente è la più importante per gli israeliti, come lo è con significati diversi per i cristiani, in quanto ricorda la notte nella quale Yahweh “passò oltre”, ovvero oltrepassò le case degli Israeliti in Egitto contrassegnate dal sangue dell’agnello sacrificato, risparmiandone i figli maschi (Es. 12, 1-27). Fu poi tassativo nei secoli successivi usare pane azzimo per il giorno di Pasqua e per i sette giorni successivi, fissando così un periodo di festeggiamenti di otto giorni, dei quali sia il primo che l’ultimo ricoprivano un significato particolarmente solenne. Si aggiunsero altre consuetudini come l’offerta di un fastello di spighe di orzo, la celebrazione della Pasqua per il mese successivo da parte di chi si fosse trovato in stato di Impurità legale, o il rituale molto stretto dei sacrifici da offrirsi al tempio nei singoli giorni dell’ottava. È certo che alcune di queste usanze andarono in disuso, come del resto quella che prevedeva di bagnare gli stipiti della porta di casa con il sangue dell’agnello sacrificale. Se ne aggiunsero altre, come il celebrare la festa impegnandosi in un pellegrinaggio a Gerusalemme.

A quella ebraica si ricollega la pasqua cristiana. Anche nel Nuovo Testamento sono frequenti le citazioni, riferendosi alle tradizioni ebraiche, per semplice rapporto cronologico e come parallelismo di significati, ad esempio in 1 Cor. 5, 7 si propone un parallelismo tra i sacrificio di Cristo con quello del. L’agnello. La ricorrenza Pasquale, e soprattutto il suo significato più vero, ebbe inizio nel ricordo che ne fecero gli Apostoli. Le prime testimonianze documentate, comunque, risalgono al secondo e terzo secolo, cioè quando si cominciò a notare una differenza tra la tradizione occidentale e quella asiatica, particolarità che insistevano su due concetti diversi: il primo della Resurrezione e l’altro della Passione e Morte di Gesù. Le Chiese orientali celebravano la Pasqua il 14 di “Nisan”, ovvero 14 giorni dopo il plenilunio primaverile, in qualsiasi giorno settimanale cadesse accentuando quindi la Morte di Nostro Signore, mentre le Chiese occidentali ponevano la liturgia pasquale tassativamente la domenica successiva il 14 di “Nisan”, spostando l’accento in modo netto sul significato della Resurrezione. Alla fine del secondo secolo si evitò lo scisma su questi temi determinanti, forse grazie alla mediazione di S. Ireneo di Lione.

Già nel IV secolo si nota un parallelismo tra le due scuole di pensiero, per cui i vari Misteri vengono celebrati in giorni diversi: Giovedì Santo istituzione dell’Eucarestia, Venerdì Santo il ricordo della Passione e Morte, il Sabato non si celebravano liturgie, mentre la Domenica era riservata alla liturgia della Resurrezione. Il rito iniziava, dopo la veglia notturna, con il canto del Lumen Christi e dell’Exultet; quindi si cantava, pregava e si leggevano le profezie per poi battezzare i nuovi cristiani.

Ai primi bagliori dell’alba si iniziava la Messa solenne di Pasqua durante la quale riprendeva il canto dell’Alleluia. Questo rito notturno si è sempre mantenuto nella liturgia della Chiesa greca, mentre in quella occidentale - già alla fine dell’era carolingia - si cominciò a spostarlo alla mattina del sabato. Soltanto con la recente riforma liturgica compiuta nel 1969, si è ripristinata la celebrazione notturna ed in parte anche il formulario delle varie preghiere e letture. Altro scoglio da superare fu il modo in cui si doveva stabilire quale plenilunio era quello da dover prendere in considerazione. Ora il ciclo pasquale è concepito in diverse fasi: ha un carattere preparatorio con la Quaresima, il fulcro si ha durante la celebrazione della Settimana Santa e, infine, è seguito dall'ottava nella quale si ricorda la Resurrezione di Gesù con particolari preghiere, soprattutto per i nuovi battezzati.

Il GAUDIUM PASCHALE comunque dura fino alla Pentecoste, che si celebra 50 giorni dopo la Pasqua.

-Scritto da Don Francesco Catrame-