Parla la Presidente del "Centro Le Ali”

Intervista con Anna Borghi, presidente della onlus che da decenni si occupa della riabilitazione terapeutica dei tossicodipendenti campani.
Un lavoro difficile e necessario, totalmente gratuito per i pazienti e finalizzato anche al ricollocamento nella società.
Una rete di servizi e collaborazioni tra Caserta, Napoli, Padova e Roma.


Incontriamo la Dott.ssa Anna Borghi, Presidente dell’Associazione “Centro Le Ali”, nella sede casertana di Via Vivaldi. Di recente ci è stata presentata dalla Dott.ssa Marta Tammaro, sua collaboratrice e rappresentante della stessa onlus, piuttosto viva nelle vicende interculturali sannicolesi svolte della Confraternita Sufi (Sufismo Murid) del Maestro Abou Ka.

 La Onlus è una realtà importante di Caserta, con un’attività essenziale che si dirama in tutta la Campania, svolgendo uno stretto programma di recupero terapeutico dei tossicodipendenti, secondo i principi del volontariato e della solidarietà sociale.

L’associazione – ci racconta la Presidente – offre servizi e percorsi terapeutici per trattare diverse forme di dipendenza, avvalendosi del programma riabilitativo “Progetto Uomo”, basato sulla centralità e sulla valorizzazione della persona, comprendendo formazione e tentativo di collocazione lavorativa. Infatti, chi supera il programma di riabilitazione, se inquadrato professionalmente, socialmente e familiarmente, molto difficilmente ricadrà della dipendenza, sintomo di un più profondo malessere della nostra critica attualità. Non a caso Caserta e Napoli si manifestato ambienti particolarmente problematici.

“Le Ali” testimonia il valore umano di volontari e pazienti, abituati a percorrere assieme un particolare inferno, fatto di drammi, squallore e morte. Si va e si cerca la persona dove i più desistono ed evitano di guardare. E’ un discorso maggiormente stringente e scomodo rispetto ai casi (lodevolissimi) di filantropia e beneficenza da salotto. E’ un passo oltre. Dritto nel buio.

L’associazione esiste dal 1990 e da allora si integra in una rete di servizi e collaborazioni, dalla ASL, alla Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche (F.I.C.T.), all’Istituto Suor Orsola Benincasa – Facoltà di Scienze della Formazione di Napoli, all’Istituto Cortivo Centro Formazione di Padova, all’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona (I.A.C.P.) di Roma.

Nella bellissima e monumentale sede di Casola, visitata poco tempo fa in occasione della messa natalizia tenuta da Sua Eccellenza il Vescovo di Caserta (vicinissimo a “Le Ali”), abbiamo potuto visitare stanze, appartamenti e gli spazi verdi destinati al lavoro di riabilitazione. Parliamo dell’Abbazia benedettina di San Pietro ad Montes, un gioiello di pietra immerso nel verde e a due passi dal borgo medioevale di Casertavecchia. L’Abbazia come sede del lavoro di riabilitazione e la presenza di Sua Eccellenza, fotografano perfettamente l’alta e meritata considerazione di cui gode l’associazione.

La Presidente Anna Borghi risponde ad alcune nostre domande.

-Presidente, può spiegarci burocraticamente come si svolge il rapporto con l’associazione?

«E’ l’ASL, tramite il SERT, ente pagante, a garantire il proseguimento del lavoro. Per questo, per il momento almeno, siamo limitati alla Campania. Ogni regione agisce secondo diversi parametri. Quando una persona desiderosa di riabilitazione intende curarsi da noi, deve andare all’ASL e indicarci come associazione preferita».

-Quanti tipi di dipendenze include il vostro programma?

«Molte dipendenze, tra cui droga, alcol, gioco d’azzardo. Per quest’ultimo il nostro principale referente è il Dott. Malinconico, psicologo. Il nostro programma terapeutico è “Progetto Uomo”, svolto da sole 44 comunità in tutta Italia ed è questo che ci differenzia dagli altri enti. Non ci limitiamo alla terapia, ma abbracciamo la totalità delle dinamiche sociali (familiari, lavorative, ecc.)».

-Cosa prevede il “Progetto Uomo”?

«Il programma si divide in tre fasi. La prima fase si svolge nella sede di accoglienza, qui a Via Vivaldi, dove arrivano i ragazzi ancora dipendenti dalla sostanza, o sotto gli effetti della “sostanza sostitutiva”. La seconda fase avviene a fine astinenza e si svolge nella comunità terapeutica di Casolla, l’Abbazia di San Pietro ad Montes, dove si intensifica il lavoro personale e l’aspetto sociale. Si agisce tramite gruppi “dinamici” (relazionali), di “sonda” (autoanalisi) e di “riconciliazione” (far pace con sé stessi). In questo processo si indaga e si riequilibra la persona. Ad esempio, il senso di colpa è uno degli ostacoli più subdoli e causa di ricaduta: il tossicodipendente si comporta il modo spregevole durante la dipendenza, per procurarsi altra droga e quando torna lucido e afflitto dal senso di colpa per quello che ha fatto… riassume altre sostanze per “dimenticare”. E’ un circolo vizioso che noi spezziamo. La persona deve imparare a perdonarsi. Infine c’è la terza fase, il reinserimento lavorativo. Si cerca lavoro e si riceve la famiglia. Tutto il percorso dura almeno 9 mes»i.

-Cosa accade agli ex-tossicodipendenti?

«Molti di loro diventano volontari e ci aiutano. Arrivano anche a fare le notti con chi è in astinenza».

-Su San Nicola la Strada quanti pazienti avete?

«Su San Nicola la strada ne abbiamo avuti soprattutto in passato».

-Mi raccontava della sua esperienza con ex-tossicodipendenti di fede islamica.

«Sì. Quando abbiamo il caso di ex-tossicodipendenti musulmani, il progresso tende a essere più stabile e duraturo. Un musulmano che supera la terapia, molto difficilmente è soggetto poi a ricadute (basti pensare al solo divieto di bere alcolici). La religione gioca un ruolo determinante in ciò. Ho visto vari giovani resistere grazie alla loro fede, anche quando la loro vita quotidiana procedeva con grandi problemi. A parità di svantaggio, altri ragazzi tendono a essere più vulnerabili alle difficoltà sociali, che rischiano di riportare alle droghe e ad altre forme di dipendenza».

-Può raccontarci la psicologia di chi è in cura?

«Un tossicodipendente vuole tutto e subito. E’ spinto dalla necessità fisica, dal bisogno. E’ incurante di responsabilità e conseguenze. Ad esempio, se mi serve smontare il lampadario e venderlo, per comprare la droga, non mi curerò, sul momento, di rimanere senza luce in casa. Quindi insegniamo anche a gestire la propria vita, le proprie finanze. Le famiglie seguono un programma parallelo, per garantire un coinvolgimento totale». 

-Lei affermava anche dell’importanza della cura dei detenuti tossicodipendenti.

«E’ una cosa molto importante. Abbiamo dei detenuti posti in condizione alternativa al carcere, che passano i domiciliari da noi. Però manteniamo bassa la percentuale, per favorire la reciproca integrazione, per evitare di esistere in un regime carcerario. Tossicodipendenti detenuti e non, da noi, lavorano assieme e sono trattati allo stesso modo. Ovviamente mi riferisco ai detenuti tali per reati legati alla tossicodipendenza».

-La cocaina va sempre più di “moda”. Diffusissima sin tra i giovanissimi. Le chiedo di spenderci qualche parola.

«La cocaina è una brutta bestia. Una delle peggiori. Agisce in modo nascosto. Crea l’illusione di essere gestibile. Nei primi tempi capita che non crei subito una palese dipendenza, quindi passa inosservata. E' subdola. I ragazzi credono di “tirarla” unicamente perché si trovano in certe circostanze sociali, l’abbinano al gioco, o alla mondanità. Occorre più tempo per capire che sta agendo. Più avanti si vedono gli effetti, quando è in profondità. L’eroina è diversa, ad esempio, perché ti stronca subito e capisci immediatamente che qualcosa non va. Da una parte è un bene, perché il problema è subito riconoscibile».

Antonio Dentice d’Accadia