EGIDIO FUSCO PREMIATO A EBOLI

Il poeta di Borgomanero dalle origini sannicolesi si è distinto con la poesia “A mio padre”

Ben 720 i concorrenti partecipanti al Premio Internazionale di Poesia “Il Saggio-Città di Eboli”.
Egidio Fusco si è aggiudicato l’11°posto ricevendo il Premio speciale alla cultura e il diploma.
La premiazione è avvenuta nel chiostro del complesso monumentale di San Francesco, divenuta ritrovo di poeti, di amici, di gentilezza, di emozioni da condividere.
Ospite d’onore Dato Magradze, intimo amico di Fusco, accompagnato dalla moglie contessa Lali. Poeta georgiano, due volte indicato al Premio Nobel, è autore dell’inno nazionale.
Il tema della poesia premiata, già primo premio a Broni, è molto frequente tra gli autori anche di rilievo; spesso il poeta ricorda con nostalgia o malinconia la figura del padre che a suo tempo avrebbe voluto conoscere di più, stargli insieme per più tempo. E persino giocare con lui.
Basta citare “Padre, se anche tu non fossi il mio” del poeta Sbarbaro.Bellissima poesia d’amore e di profondo affetto. Il sentimento che egli prova nei confronti di suo padre prelude da quell’indissolubile legame di sangue.
…Padre, se anche tu non fossi il mio/Padre, se anche fossi a me un estraneo,/fra tutti quanti gli uomini già tanto/ pel tuo cuore fanciullo t’amerei. Fusco ricorda il padre, instancabile operaio, che si sacrifica con quel duro lavoro, perché a casa ci sono i figli che studiano. Egidio Fusco sta per laurearsi e impegnandosi con cura riesce a ringraziare il genitore che finalmente può dire, con orgoglio, “mio figlio dottore!

-      
- - - - -

 

 

A mio padre

Il vento soffia gelido nelle lunghe notti della stagione cruda,

ma tu con il volto sereno ti avvii all’usato lavoro.

Ed io odo giù per le scale i tuoi passi che si confondono

col rauco suono della tua insistente tosse.

E così quando ancora piove o sotto il sole della calda estate,

tu con quel volto che sembra l’espressione

della bontà, della serenità, non perdi un’ora di quel duro lavoro

che ti procura un salario di fame. Ti è solo compagna una speme:

ti dà forza un sogno nel cuore che tu da anni interminabili accarezzi.

Tu sei lieto di quel lavoro perché io possa continuare gli studi,

perché tu possa dire: “mio figlio dottore!”

Padre mio, amico mio, unica persona a cui darei la vita

se questo servisse ad alleviarti almeno un’ora della tua condanna,

se potesse evitarti almeno un colpo di tosse

che mi stringe il cuore in una morsa quando l’odo,

tu vuoi che io sia dottore, tu vuoi che io non abbia

a piegar la testa, a chiedere, a mendicare da altri la mia vita,

come a te è successo per la tua lunga sventura,

tu vuoi che io sia “qualcuno” però ti pieghi vieppiù

sotto il peso degli anni, sotto il lungo lavoro.

Non vedi i tuoi capelli bianchi, non guardi le tue mani dure,

non vedi che io in silenzio piango,

non guardi nel mio cuore scuro!

Gli anni di studio che mi faran dottore

sono lunghi e non con successo sicuro.

Io studio con gli occhi di sangue,

io consumo i libri con cura, io voglio che tu sia contento.

Ma ho una grande paura: paura di non riportare un successo.

Quand’essa m’assale vorrei tanto dirti che non vale molto

un “piccolo dottore” nei confronti di un bravo, onesto lavoratore.

Ma non posso: mi trattengono i tuoi occhi stanchi, mi trattiene la somma

dei sacrifici per me spesi! E allora io piango,

come in questo momento e chiedo a mia Madre

che sta lassù, vicino al Signore, la forza per riuscire, per riuscire,

perché tu possa dire finalmente: “Mio figlio dottore!”