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Ateismo, “dramma spirituale della nostra epoca”



La rubrica
Riflessioni di Don Francesco Catrame
si arricchisce di un altro prezioso contributo

 

L’ateismo è senza dubbio, uno dei fenomeni più grandi, e bisogna anche dire, il dramma spirituale della nostra epoca (cf. Gaudium et Spes, 19).

Inebriato dal turbine delle sue scoperte, assicurato da un progresso scientifico e tecnico apparentemente senza limiti, l’uomo moderno si scopre inesorabilmente messo di fronte al suo destino: “A che scopo andare sulla luna - secondo l’espressione di uno degli uomini di cultura più prestigiosi della nostra epoca -, se è per suicidarsi?” (André Malraux, “Préface” à L’enfant du rire de P. Bockel, Grasset).

Cos’è la vita? Cos’è l’amore? Cos’è la morte? Da quando vi sono uomini che pensano, queste domande fondamentali non hanno cessato di impegnare il loro spirito. Da millenni, le grandi religioni si sono sforzate di fornire le loro risposte. L’uomo stesso, non appare, allo sguardo penetrante dei filosofi, nel suo essere, indissolubilmente “homo faber”, “homo ludens”, “homo sapiens”, “homo religiosus”? E non è a quest’uomo che la Chiesa di Gesù Cristo intende proporre la buona novella della salvezza, portatrice di speranza per tutti, attraverso il flusso delle generazioni e il riflusso delle civilizzazioni? Ma ecco che, in una gigantesca sfida, l’uomo moderno, dopo il rinascimento, si è eretto contro questo messaggio di salvezza, e si è messo a rifiutare Dio nel nome della sua stessa dignità di uomo. Dapprima riservato a un piccolo gruppo di spiriti, l’“intellighentia” che si considerava come un’élite, l’ateismo è oggi divenuto un fenomeno di massa che investe le Chiese. Molto di più, esso le compenetra dall’interno, come se i credenti stessi, ivi compresi coloro che si rifanno a Gesù Cristo, trovassero in sé una segreta connivenza rovinosa della fede in Dio, nel nome dell’autonomia e della dignità dell’uomo. Si tratta di un “vero secolarismo”, secondo l’espressione di Paolo VI nella sua esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”: “Una concezione del mondo per la quale quest’ultimo si spiega da solo, senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio; Dio divenuto così superfluo e ingombrante. Un tale secolarismo per riconoscere il potere dell’uomo, finisce dunque per sorpassare Dio, e anche per negare Dio” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 55).

Tale è il dramma spirituale del nostro tempo. La Chiesa non saprebbe prenderne parte. Essa intende, al contrario, affrontarlo coraggiosamente. Perché il Concilio è stato inteso al servizio dell’uomo, non dell’uomo astratto, considerato come un’entità teorica, ma dell’uomo concreto, esistenziale, alle prese con i suoi interrogativi e le sue speranze, i suoi dubbi e le sue stesse negazioni. È a quest’uomo che la Chiesa propone il Vangelo. Bisogna dunque che egli lo conosca, di quella conoscenza radicata nell’amore, che apre al dialogo nella chiarezza e nella confidenza tra gli uomini separati dalle loro convinzioni, ma convergenti nel loro stesso amore dell’uomo. “L’umanesimo laico e profano, ha detto Paolo VI al tempo della chiusura del Concilio, è apparso nella sua terribile statura e ha in un certo senso sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo si è scontrata con la religione - perché ce n’è una - dell’uomo che si è fatto Dio. Che cosa ne è derivato?

Uno choc, una lotta, un anatema? Tutto questo poteva capitare, ma non ha avuto luogo. La vecchia storia del samaritano è stata il modello della spiritualità del Concilio” (Paolo VI, Homilia in IX SS. Concilii sessione habita, 7 dic. 1965).

“Il confronto tra la concezione religiosa del mondo e la concezione agnostica che è uno dei segni dei tempi, potrebbe conservare delle dimensioni umane leali e rispettose, senza portare danno ai diritti essenziali della coscienza di ogni uomo o di ogni donna che vive sulla terra” (Giovanni Paolo II, Allocutio ad Nationum Unitarum legatos, 20, die 2 oct. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 538).

Tale è la convinzione del nostro umanesimo universale, che ci porta anche davanti a coloro che non condividono la nostra fede in Dio, in nome della loro fede nell’uomo - ed è questo il tragico fraintendimento da dissipare.

Il fenomeno infatti ci assale da tutte le parti: dall’oriente all’occidente, dai paesi socialisti ai paesi capitalisti, dal mondo della cultura a quello del lavoro. Nessuna età della vita vi sfugge, dalla giovane adolescenza in preda al dubbio, alla vecchiaia aperta allo scetticismo, attraverso i sospetti e i rifiuti dell’età adulta. E non vi è nessun continente che ne è risparmiato.

Infatti deve essere chiaro agli occhi di tutti che la Chiesa vuole essere in dialogo con tutti, ivi compresi coloro che si sono allontanati da essa e la rifiutano, tanto nelle loro convinzioni affermate e decise che nei loro comportamenti decisi e perfino militanti. Gli uni e gli altri del resto sono intimamente implicati. Le motivazioni suscitano l’azione. E l’agire, a sua volta, modella il pensiero.

Cosa c’è infatti all’apparenza di comune tra paesi in cui l’ateismo teorico, si potrebbe dire, è al potere, e altri al contrario la cui neutralità ideologica professata ricopre un vero ateismo pratico? Senza dubbio la convinzione che l’uomo è, da sé solo, il tutto dell’uomo. Certo, già il salmista andava ripetendo: “Insensati, coloro che dicono che non vi è alcun Dio” (Sal 14). E l’ateismo non è fenomeno d’oggi. Ma era come riservato alla nostra epoca di farne la teorizzazione sistematica, indebitamente pretesa scientifica, e di metterne in opera la pratica su scala di gruppi umani e anche di importanti paesi. E nonostante ciò, come non riconoscerlo con ammirazione, l’uomo resiste davanti questi assalti ripetuti e questi fuochi incrociati dell’ateismo pragmatico, neopositivista, psicoanalitico, esistenzialista, marxista, strutturalista, nietzschiano... L’invasione delle pratiche e la destrutturazione delle dottrine, non impediscono, ma al contrario, perfino anche fanno sorgere, al cuore stesso dei regimi ufficialmente atei, come in seno a società chiamate consumistiche, un innegabile risveglio religioso. In questa situazione contrastante, c’è una vera sfida che la Chiesa deve affrontare, e un impegno gigantesco che deve realizzare, e per il quale essa ha bisogno della collaborazione di tutti i suoi figli: rendere di nuovo cultura la fede nei diversi spazi culturali del nostro tempo, reincarnare i valori dell’umanesimo cristiano.

Non è una richiesta pressante degli uomini della nostra epoca che, perfino disperatamente e come a tentoni, ricercano il senso del senso, il senso ultimo?

A dispetto delle loro differenze di origine e di orientamento, le ideologie moderne si incontrano al crocevia dell’autosufficienza dell’uomo, senza che alcuna di esse riesca a colmare la sete di assoluto che lo attanaglia. Perché, “l’uomo supera infinitamente l’uomo”, come notava Pascal nei suoi “Pensieri”. È perciò che, dalla troppa sicurezza delle sue certezze, come dal vuoto delle sue domande, sempre risorge l’istanza di questo infinito di cui egli non può allontanare da sé l’immagine, anche quando egli la fugge: “Tu eri dentro di me. E io ero fuori da me stesso”, confessava già sant’Agostino (S. Agostino, Confessioni, X,27).

Nella sua enciclica “Ecclesiam Suam”, Paolo VI s’interrogava su questo fenomeno, vedendovi la via di un dialogo di salvezza: “Le ragioni dell’ateismo, impregnate di ansietà, colorate di passione e di utopia, ma spesso anche generose, ispirate da un sogno di giustizia e di progresso, tese verso finalità d’ordine sociale divinizzate: tante succedanee dell’assoluto e del necessario... Gli atei, noi li vediamo anche a volte mossi da nobili sentimenti, disgustati dalla mediocrità e dall’egoismo di tanti mezzi sociali contemporanei, e in grado di improntare al nostro Vangelo delle forme e un linguaggio di solidarietà e di compassione umana: saremo noi un giorno capaci di ricondurre alle loro vere origini, che sono cristiane, queste espressioni di valori morali?” (Paolo VI, Ecclesiam Suam, die 6 aug. 1964, Typ. Pol. Vat., pp. 66-67.).

L’ateismo proclama la necessaria scomparsa di ogni religione, ma è esso stesso un fenomeno religioso. Non ne facciamo, pertanto, un credente che si ignora.

E non riconduciamo quello che è un dramma profondo a un fraintendimento superficiale. Davanti a tutti i falsi dèi che rinascono senza posa dal progresso, dal divenire, dalla storia, sappiamo trovare il radicalismo dei primi di fronte agli idolatri del paganesimo antico, e ridire con san Giustino: “Certo, noi lo confessiamo, noi siamo gli atei di questi pretesi dèi” (S. Giustino, Apologia I, VI, n. 1).

Siamo dunque, in spirito e verità, dei testimoni del Dio vivente, portatori della sua tenerezza di padre al vuoto di un universo rinchiuso su se stesso e oscillante dall’orgoglio luciferino alla disperazione disingannata. Come in particolare non essere sensibili al dramma dell’umanesimo ateo, di cui l’ateismo e più precisamente l’anticristianesimo, schiaccia la persona umana che esso aveva voluto liberare dal pesante fardello di un Dio considerato come un oppressore? “Non è vero che l’uomo non possa organizzare la terra senza Dio. Quel che è vero, è che, senza Dio, egli non può in fin dei conti che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano” (Henry de Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Spes, 1944, p. 12; Paolo VI, Populorum Progressio, 42).

A quattro decenni di distanza, ciascuno può riempire queste indicazioni premonitrici di padre de Lubac, del peso tragico della storia della nostra epoca.

Quale invito a ritornare al cuore della nostra fede: “Il redentore dell’uomo Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia”(Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 1). Il crollo del deismo, la concezione profana della natura, la secolarizzazione della società, la spinta delle ideologie, l’emergenza delle scienze umane, le rotture strutturaliste, il ritorno dell’agnosticismo, e il crescere del neopositivismo tecnicistico non sono tante provocazioni per il cristiano a ritrovare in un mondo vecchio tutta la forza della novità del Vangelo, sempre nuovo, sorgente inesauribile di rinnovamento. E san Tommaso d’Aquino, a undici secoli di distanza, prolungava il motto di sant’Ireneo: “Christus initiavit nobis viam novam” (S. Tommaso, Summa Theologiae, I-IIae, q. 106, a. 4, ad 1). È al cristiano che spetta di darne testimonianza. Egli porta certo questo tesoro in vasi di argilla. Ma non per questo egli è meno chiamato a porre la luce sul candelabro, affinché essa rischiari tutti coloro che sono nella casa.

È anche il ruolo della Chiesa, della quale il Concilio ci richiamava che essa è portatrice di colui che, solo, è “lumen gentium”.

Imparare a ben pensare era una risoluzione che si professava ieri volentieri. È sempre una necessità primaria per agire. L’apostolo non ne è dispensato. Quanti battezzati sono divenuti estranei a una fede che forse non hanno posseduto in se stessi veramente perché nessuno l’aveva loro ben insegnata! Per svilupparsi, il seme della fede ha bisogno di essere nutrito della parola di Dio, dei sacramenti, di tutto l’insegnamento della Chiesa e questo in un clima di preghiera. E, per raggiungere gli spiriti guadagnando i cuori, bisogna che la fede si presenti per ciò che essa è, e non sotto falsi rivestimenti. Il dialogo della salvezza è un dialogo di verità nella carità.

Oggi, per esempio, le mentalità sono profondamente impregnate di metodi scientifici. Ora una catechesi insufficientemente informata della problematica delle scienze esatte come delle scienze umane, nella loro diversità, può accumulare ostacoli in una intelligenza, al posto di aprirvi il cammino all’affermazione di Dio.


Francesco Catrame



Tutti i contenuti della rubrica

RIFLESSIONI di DON FRANCESCO
(a cura di Don Francesco Catrame,
Parroco di Santa Maria degli Angeli
in San Nicola la Strada)
pubblicata su Corriere di San Nicola:


ATEISMO, "DRAMMA SPIRITUALE DELLA NOSTRA EPOCA"
TEOLOGIA DELLA SPERANZA

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