Don Primo: esperienze di un Mistico ed Esorcista

Don Primo Poggi, memorie inedite dal misticismo cristiano.
Le personali esperienze col divino, gli aneddoti e le utilità per i fedeli (e non): «So che Dio non sopporta il rimpianto. Dio non sopporta chi si compiange».
Dove risiede lo Spirito non c’è posto per bigotti e fanatici.


Dopo più di trent’anni di reggenza del Santuario di Santa Lucia di Centurano (Caserta), a causa dell’età avanzata e dello stato di salute, il Reverendo Don Primo Poggi cede l’incarico in favore di Don Sergio Adimari, continuando l’opera sacerdotale in qualità di confessore.

Data l’occasione, intendo pubblicare del materiale inedito su Don Primo, raccolto nel corso di numerosi colloqui privati avuti tra il 2014 e il 2015. L’oggetto dei nostri dialoghi era ed è sempre lo stesso, la mistica del cristianesimo. Non la teologia, né la filosofia, né la dottrina. Ma le esperienze personali di chi, come Don Primo, ha fama di “mistico ed asceta”. Lo speciale rapporto col trascendente, o cattolicamente parlando, collo Spirito Santo. La priorità di un San Francesco non fu tanto lo studio della patristica, quanto il comprendere, per relazione diretta, la vita della creazione.

Sono grato al Reverendo per ciò che mi ha trasmesso e mi auguro che possa essere utile ai fedeli, essendo un tesoro esperienziale che supera ogni bigottismo e fanatismo. O come ama scrivere lo scienziato del Novecento Giuseppe Palomba nella sua monumentale Morfologia economica: «non si dà prova di essere sufficientemente cristiani quando si disprezza tutto ciò che non è cristiano».

Cosa distingue un semplice sacerdote (o un semplice fedele) da un mistico? Semplice. Occhi che vedono e orecchie che sentono. Accuratamente.

L’anziano Don Primo Poggi, Reverendo di grande umanità e capacità, nasce nel 1935 in provincia di Piacenza ed è ormai, da diversi decenni, un punto di riferimento per tanti cristiani. Ha fama di “asceta”, “esorcista” e “mistico”. Circoscrivo tra virgolette gli appellativi poiché attribuiti dalle numerose persone gravitanti attorno al Reverendo, uomo abbastanza riservato e semplice da deridere orpelli e tentativi di adorazione.

Nel periodo dei dialoghi Don Primo era accompagnato costantemente da un gruppo di cinque-sei cani di varia grandezza, anche quando dormiva, confessava e celebrava messa. Egli aveva cortesemente accettato di svolgersi col sottoscritto in una serie estesa di incontri finalizzati alla parziale comprensione della sua religiosità, vissuta come fisico collegamento al divino, nel senso di «occhi che vedono» e «orecchie che ascoltano» (come mi piaceva dirgli).

Sarebbe scorretto affermare che l’articolo totalizzi il pensiero e l’empirismo del Reverendo, ma sono ben accorto nel gestire col massimo rispetto e con la massima precisione possibile quanto gentilmente ricevuto in direzione del Santuario di Santa Lucia.

«L’intelligenza porta necessariamente il dubbio», diceva il Reverendo e parallelamente affermava: «E’ nel cuore che parla Dio». Don Primo esponeva la propria riflessione sulla differenza tra “Dio ascoltato nella mente” e, appunto, “nel cuore”, il tutto su base specificamente personale e senza riferirsi a elaborazioni teologiche, di cui ammetteva di saperne/ricordarne ben poco.

Aggiungo inoltre cosa egli esprimeva sul discorso “cardiaco”, il cercare Dio col cuore, ma nella solitudine e nel silenzio, condizioni speciali affinché si percepisca il legame. Così il Reverendo ha finora sperimentato, addirittura affermando che alcune persone troverebbero più utile isolarsi nella contemplazione, piuttosto che immergersi nell’ottima coralità della celebrazione liturgica.

Né Don Primo né il sottoscritto detengono alcuna verità assoluta, ma entrambi godiamo di una propria cognizione, magari metamorfica. In veste cattolica lui ed in veste laica io, dialogando qualche elemento comune emergeva ed emerge. Il resto è terminologia nella terminologia.

Nel corso dei nostri incontri mi dirigevo presso il Santuario ad orari piuttosto casuali, prediligendo soprattutto la tarda mattinata del giorno di mercoledì, quando il Reverendo riposava. Il resto del suo tempo era speso tra messe e confessioni, iniziando dalle cinque del mattino se non addirittura prima.

Le confessioni erano un vero problema. Quando andava bene Don Primo riceveva una media di venti fedeli al giorno, toccando anche picchi di quaranta persone (se non più) durante i periodi estivi. Un pomeriggio ero capitato al termine di una lunga fila di pentiti ed ironicamente (ma non troppo) ho fatto presente al Reverendo che lo preferivo distante dagli orari delle assoluzioni a causa dell’aria pesante che si respirava nella stanza. Lui ha liquidato velocemente il fatto replicando di non appesantirsi (troppo?) in tali circostanze. Al sottoscritto sembrava un po’ il contrario, ma c’è da ammettere ed ammirare tutta la coriaceità dell’atto. Qualche istante dopo mi ha dato un’assoluzione. 

Alcune settimane prima avevamo parlato proprio dell’atto confessionale. Don Primo diceva che la confessione ha sostanzialmente l’utilità di metterti in pace con Dio e di accettarne la giustizia in armonia, senza cancellare automaticamente i peccati, altrimenti sarebbe troppo facile e certamente troppo meccanico. Il sacerdote ha dunque il compito di svolgersi intermediario tra Dio e il confessante, lasciando poi al primo l’operare di misericordia e giustizia. «Misericordia/perdono e giustizia», sottolineava Don Primo. Esistono entrambi gli aspetti. Tuttavia, precisava, come opera (soprattutto) la seconda - la giustizia - è un grande mistero.

Don Primo si era speso anche nel raccontarmi un particolare interessante e caratteristico: «Dovevo confessare un uomo, ma una voce nella testa continuava ad assillarmi, ordinandomi di dargli direttamente l’assoluzione senza ascoltarne i peccati. Tentai di resistere alla voce per continuare a svolgere la confessione… ma divenne troppo forte per cui, ad un certo punto, dissi all’uomo: “Senti, qui mi ordinano di darti subito l’assoluzione senza sapere cosa hai da dire”. L’uomo tesissimo scoppiò a piangere». Il Reverendo ha aggiunto poco dopo: «So che Dio non sopporta il rimpianto. Una volta ottenuto il perdono devi andare per la tua strada senza perdere tempo e senza compiangerti. Dio non sopporta chi si compiange».

Don Primo preferiva adottare un approccio di pura contemplazione ed apertura ai fatti sacri, senza preoccuparsi (anche) di una visione “sistematica e/o scientifica”, come quella di chi lo disturbava soprattutto di mercoledì.

Egli mi raccontava anche un altro interessante insegnamento ricevuto: «La grazia divina è come un gioiello. E dove lo metti un gioiello per risaltarlo? Su un panno bianco? No. Su un panno scuro, nero. E’ il nero a risaltare la bellezza di una pietra preziosa. Similmente Dio pone la sua grazia sul nero dei nostri peccati».

Il Reverendo era abile (magari inconsapevolmente) nel parlare per simboli, rendendoli porte abbastanza grandi da permettere abbondante scorcio nella propria vita. Qualche volta preferiva l’allegoria, altre volte no ed intendeva dire esattamente quello che diceva: «Mi rendo subito conto di chi ho avanti. Capisco sempre se la persona ha commesso i soliti peccati quotidiani e su quelli non ci perdo neanche tempo, dando rapida assoluzione. Ma quando sento che quella persona ha davvero qualcosa di serio allora è diverso e serve lavorarci».

Serbo chiara memoria della camera del Santuario dove egli dorme. Essa era (ed è tuttora) arricchita unicamente dalle decine e decine di immagini e statue di santi che circondano il letto da ogni angolo, con un’apparente precisione cromatica della loro distribuzione. Saranno state un centinaio se non di più, abbastanza da garantire una densità sacrale anche al luogo di riposo, per le poche ore che il Reverendo dedicava ad esso.

Don Primo tanto era alla mano, disteso e piacevole durante i colloqui privati e tanto risultava rigido ed intransigente durante la messa: «perché le persone (che sono a messa) sono fatte in un certo modo», mi rispondeva, lasciandomi intuire un: «conosco i miei polli».

Tanto il Reverendo viveva rigorosamente la messa e tanto rigorosamente mi diceva: «Non bisogna convertire nessuno. Non si deve convertire!». Perché non serve.

Si badi bene a non fare di Don Primo un idolo, perché gli si andrebbe duramente contro, a corrompere profondamente le sue intenzioni. Più di una volta l’ho visto smorzare con forza gli “strani entusiasmi” di qualche fedele e troncare con netta decisione ogni accenno ad un suo stato di effettiva santità. Amava ripetere: «Anche io ho pagine nere. Tante pagine nere di peccato della mia vita».

Nel progetto iniziale il contenuto dei colloqui avrebbe dovuto comporre un paragrafo di una futura pubblicazione editoriale, la quarta sul ciclo del pensiero filosofico dello scienziato del Novecento Giuseppe Palomba. Tuttavia, nel 2018, la pubblicazione di un precedente volume ha slittato a data futura l’uscita del precedente. Di conseguenza, dopo circa quattro anni che il materiale è rimasto “congelato”, ho valutato utile e corretto estrapolarne un articolo, essendo una preziosa porta sul misticismo cristiano, attraverso la vita di una persona considerata autorità e non solo in Campania.

La rubrica “Misticismo” del Corriere di San Nicola, dopo aver dialogato con i Maestri spirituali del Sufismo Murid, con il Reverendo Maestro del Taoismo e dopo aver raccolto le testimonianze dei praticanti delle Santerie afro-americane, finalmente dedica un pezzo approfondito anche alla spiritualità occidentale, iniziando proprio da Don Primo Poggi.

Nel periodo dei dialoghi ho terminato una bozza di quanto in articolo, affinché Don Primo la visionasse. Tutte le informazioni pubblicate mi sono state autorizzate direttamente dal Reverendo, che ironicamente mi ha contestato una sola cosa: «Sembra un romanzo». C'est la vie!

Antonio Dentice
©Corriere di San Nicola

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