“Dilexit nos”: riflessioni di Don Franco Catrame sulla quarta enciclica di papa Francesco
-in rubrica “Riflessioni di Don Franco” pubblicata su Corriere di San Nicola-
Il tema da cui prende l’avvio la recente enciclica “Dilexit nos” di Papa Francesco (la quarta, scritta nel suo dodicesimo anno di pontificato e pubblicata il 24 ottobre 2024) è uno di quelli con cui occorre fare i conti sempre, quale che sia la nostra posizione, credenti o non credenti, buoni o cattivi. Meriti e demeriti non spostano il problema. La parola che lo definisce ci è nota, forse troppo: cuore.
Chi ha avuto la fortuna di crescere alla scuola di don Giussani conosce bene il significato biblico di questa parola: un complesso di evidenze ed esigenze insopprimibili che ogni essere umano porta in sé verità, giustizia, bellezza, amore.
In modo analogo ce lo presenta la “Dilexit nos”: «Dice la Bibbia che “la parola di Dio è viva, efficace e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). In questo modo ci parla di un nucleo, il cuore, che sta dietro ogni apparenza, anche dietro i pensieri superficiali che ci confondono».
È il primo, originale mistero dell’«esser nostro».
Eppure noi abbiamo paura del cuore.
Parlando con un conoscente, fieramente ateo, mi capitò tempo fa di accennare alla cosa. Lui sorrise, beffardo: «Guardi, per me il cuore non è che un muscolo che pompa il sangue e che va tenuto periodicamente sotto controllo dal cardiologo: il resto non m’interessa».
Ricordo il tono quasi isterico delle sue parole, la voglia di archiviare la questione il più in fretta possibile. Ma la sua paura era anche la mia, tra noi la differenza fra “credente” e “non credente” non c’era più.
Noi costruiamo le nostre vite, le nostre carriere, le nostre case, diamo cose buone a coloro che amiamo (come tutti i bravi pagani), facciamo opere buone, eppure si può fare tutto questo cercando al tempo stesso di mettere al suo posto, ossia di archiviare, o di relegare ai momenti “religiosi” le parole del poeta: «Qualunque cosa tu dica o faccia / c'è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo! / E così tutto rimanda / a una segreta domanda: / l’atto è un pretesto».
Per questo, credo, tra noi si fa la Scuola di comunità: per cercare di non evitare il nostro cuore. Ed è lo stesso invito, il primo, la condizione fondamentale, che il Papa ci rivolge nella sua enciclica. Ma il cuore, lo sappiamo, da solo non basta a rintracciare la via: è come una ferita aperta nella nostra vita, è un cuore fragile, piccolo, soggetto a inganni, riduzioni, fraintendimenti. Perciò non può che attendere la sua salvezza, la parola che finalmente illuminerà quel suo continuo sentirsi vuoto, insensato. Esiste infatti un altro Cuore, pronto a farsi carico del nostro, un Cuore sanguinante d’amore, che ci ha attesi prima che noi imparassimo ad attenderlo. L’origine della fede sta in questo incontro di cuori feriti, l’uno mendicante dell’altro. Questa mendicanza è, se così si può dire, il cuore del cuore. Tutti ricordiamo il padre di quei due giovani, uno dei quali volle andarsene a vivere la propria vita, pretese la parte del suo patrimonio e lo sperperò con le prostitute; tutti ricordiamo quel padre anziano, che tutti i giorni, in mezzo a mille faccende, anziché serbare rancore verso il figlio ingrato si affaccia al balcone della sua casa, e scruta la strada nella speranza di vedere spuntare, all’orizzonte, la sua figura amata.
La fede è, anzitutto, l’incontro del nostro piccolo cuore con il Cuore ferito di Cristo: «O côr soave, côr del mio Signore, ferito gravemente: non da coltel pungente, ma dallo stral», dalla freccia acuminata, «che fabbricò l’Amore».
Chi mai può dire e concepire parole come queste? Non un teologo, un biblista, ma solo un cuore ferito e, finalmente, grato.
Le pagine dell’Enciclica dedicate al Sacro Cuore di Gesù sono commoventi, e ci ricollegano - noi uomini moderni e carichi di incredulità perfino mentre preghiamo - alla fede semplice e profonda dei nostri nonni e dei nostri bisnonni.
Il testo, pur pieno di riferimenti biblici e teologici, è soprattutto un inno a questa fede umile e testarda, fatta della stessa materia del cuore, che non si accontenta di precetti e di risposte già date, e nemmeno di un incontro relegato nel ricordo. Ce lo siamo detti tante volte, ed è così: questo incontro è vero se avviene qui, ora: la memoria cristiana non è un ricordo, ma la consapevolezza della trama di cui è fatta la realtà, il Mistero che fa tutte le cose, adesso. Il Papa ce lo dice, in queste pagine, tante volte in tanti modi diversi.
C’è, infine, un’ultima insistenza, fondamentale. La esprime Gesù stesso, quando spiega qual è l’amore di cui ha sete il suo Cuore, il Cuore per mezzo del quale tutto esiste: non una semplice devozione individuale, ma l’accoglienza dell’altro - e specialmente dei poveri e di chi soffre - come parte essenziale del Suo corpo fisico. «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9, 37).
Lo stesso vale per ogni azione missionaria, anche qui guai all’uomo solo. Scrive il Papa: «Non si deve pensare a questa missione di comunicare Cristo come se fosse solo una cosa tra me e Lui. La si vive in comunione con la propria comunità e con la Chiesa. Se ci allontaniamo dalla Comunità, ci allontaneremo anche da Gesù. Se la dimentichiamo e non ci preoccupiamo per essa, la nostra amicizia con Gesù si raffredderà. Non va mai dimenticato questo segreto». È bellissima questa parola, segreto! La comunità, la compagnia non è un precetto, un dovere, una norma, non è una questione organizzativa o gestionale: è un segreto che io non conoscerò mai davvero, di cui non diventerò mai padrone, ma che risuona tuttavia in me come l’eco di una voce più grande, di un cuore più grande del mio.
Commuove la conclusione, quando il Papa dice che di queste cose «ha bisogno anche la Chiesa, per non sostituire l’amore di Cristo con strutture caduche, ossessioni di altri tempi, adorazione della propria mentalità, fanatismi di ogni genere che finiscono per prendere il posto dell’amore gratuito di Dio che libera, vivifica, fa gioire il cuore e nutre le comunità. Dalla ferita del costato di Cristo continua a sgorgare quel fiume che non si esaurisce mai, che non passa, che si offre sempre di nuovo a chi vuole amare. Solo il suo amore renderà possibile una nuova umanità».
Non un ammaestramento, ma un invito: a camminare insieme con il cuore ben desto al cenno di Chi ci ama.
Don Franco Catrame
©Corriere di San Nicola
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