STORIE DAL VODOU
Gianluca Furlan: una storia tra Servizi segreti, Vodou e Santerie. Trent’anni di esperienze ad Haiti, in Repubblica Dominicana e in Messico. I miracoli e gli orrori di ciò che vive nel “segno del profondo”, nel bene e nel male. Testimonianze inedite e rare dei culti afro-americani.
PREMESSA
Con piacere arricchiamo la rubrica Misticismo del Corriere di San Nicola, una delle principali in Italia sull’argomento (e per alcune specificità, la prima), con una testimonianza inedita, la storia di Gianluca “El Chavo” Furlan. Fino ad ora, mai stata comunicata ad alcun editore o testata giornalistica. Non un semplice articolo, bensì articolo in forma di racconto, con alcune caratteristiche del reportage. Occorre un po’ di calma, ma si apre un mondo di cose.
L’incontro col protagonista è frutto di una serendipità.
Certi fatti, facendo il giro del mondo, terminano proprio a Caserta e San Nicola la Strada, dove vengono trascritti e pubblicati.
Furlan ci racconta le esperienze ad Haiti, in Repubblica Dominicana e in Messico. In quasi trent’anni sull’isola, ha potuto incontrare centinaia di praticanti del Vodou e di altre forme di “Santeria”: dai sacerdoti-stregoni haitiani, ai brujo delle 21 Divisiones, agli sciamani messicani.
Testimonianze dirette che hanno dell’incredibile, a tratti agghiaccianti e surreali. Alcune, addirittura difficili da credere, soprattutto per chi è distante da certe realtà.
Addirittura abbiamo preferito omettere alcuni dettagli e informazioni. E si consideri che il Furlan ci apre appena una parte delle sue esperienze lì, nel bene e nel male: «Bisogna avere il cuore grande e le palle di acciaio».
Intanto, mentre inizio a redigere questo articolo, va in fiamme un palazzo in Via Dante Alighieri, vicino casa mia. Grazie a Dio, nessun morto e nessun ferito.
Gianluca “El Chavo” Furlan
Furlan nasce il 15 aprile 1966, sotto il segno dell’ariete, a Sarzana, in provincia di La Spezia, all’Ospedale “San Bartolomeo”. Vive ormai da ventinove anni nella Repubblica Dominicana e ora abita a Nizao, nell’area di Bani, nel sud dell’isola. Qui è noto come El Chavo (il ragazzo), nomignolo affibbiatogli anni fa: «quasi tutti ne hanno uno. Addirittura è più facile cercare una persona dal soprannome, piuttosto che con i dati anagrafici».
Furlan è un imprenditore finanziario con un passato di intensa collaborazione con i servizi segreti italiani: «un lavoro che mi ha permesso di girare mezzo mondo, conoscere tante persone e tanti amici».
Attualmente vive con la terza moglie, Lucinda Maria: «un alma de Dios, un’anima di Dio» e col figlio dodicenne Giason: «molto forte e vivace».
Lavoro
Gianluca Furlan ha un’infanzia difficile, tra violenze e seri problemi col padre adottivo: «le ferite morali fanno più male di quelle fisiche, un giorno forse le racconterò, ma ora voglio parlare di altro». Alle spalle ha tanti lavori, anche molto umili e duri: i mercati generali di Sarzana, in fabbrica, nell’edilizia e in una cooperativa sociale.
La svolta avviene dal 2002 al 2005, la collaborazione con i servizi segreti. Furlan vi opera come addetto alla sicurezza nei Corpi Diplomatici e qui ha la possibilità di viaggiare tanto: Bruxelles e il resto d’Europa, Nord, Centro e Sud America: «Mi occupavo di documentazione altamente riservata presso varie sezioni diplomatiche di mezzo mondo. Un lavoro gratificante per il modo in cui vivevo, grandi soddisfazioni. Ora che la collaborazione è conclusa, posso dirlo». Ovviamente non può dettagliare il tipo di attività specifica.
Con i soldi guadagnati nei Corpi diplomatici Furlan può aprire una attività stabile nella Repubblica Dominicana (una finanziaria), dove vive già da tempo.
Per varie questioni il nostro protagonista di recente ha incontrato Perez, la Comandante "de la Juridica" della Base Aerea "San Isidro" della Repubblica Dominicana:
«Ne approfitto per ringraziarla e complimentarmi pubblicamente con lei. E’ stata di una efficienza impressionante, una donna che non guarda in faccia a nessuno e fa quello che deve».
Profilo
Un carattere e una mentalità solida: «Non ho mai perso identità e personalità. Ne ho fatte di sciocchezze, tanti errori… ma non ho mai ucciso nessuno e non ho mai tradito un amico. Mai».
Religione e credenze: «Sono e mi sento cattolico, seguo con rigore il Cristianesimo. Ho i miei peccati e miei debiti verso Dio. Dio per me è energia pura».
Vicissitudini anche tremende, spesso al limite della sopportazione: «Sono un sopravvissuto e un guerriero».
Fondamentali gli affetti nella vita di Gianluca: «Ho pianto solo la morte di due miei amici e di mia madre, lì mi è caduto il mondo addosso».
Circa due volte l’anno Furlan torna in Italia, per vacanza, fermandosi nei luoghi della gioventù e degli amici: «La Spezia non è più come prima. Vedo tanta tristezza in Italia, anche nella gioventù. Ormai si sopravvive, non si vive».
Altre premesse
Le tradizioni che Furlan ci testimonia nel loro luogo di origine, sono espresse negli aspetti sia benefici che aggressivi. Si tratta di tradizioni sincretiche afro-americane, incrocio tra due culti: il Cattolicesimo e le antiche religioni africane portate dagli schiavi. Gli spiriti e le divinità africane vengono sincretizzate con i santi cristiani. Oltre allo sciamanesimo messicano.
I culti definiti volgarmente Santerie (ne esistono numerose varietà) essenzialmente hanno lo scopo dell’unione tra l’uomo e il trascendente. Tuttavia, esistono anche degenerazioni e tanti, tanti ciarlatani.
Per fare un esempio, nello sciamanesimo messicano esiste l’uso sacro delle sostanze psicotrope, che assunte in certe condizioni, sotto una guida sacerdotale, divengono strumentali all’esperienza mistica. Quando invece ne abusano persone senza alcuna competenza e senza una reale conoscenza del percorso, ecco che tutto è pervertito in altro, tra dipendenze e follie varie.
Altro esempio, in India esiste il Tantra, una cui parte prevede rituali di tipo sessuale: vi vengono ammesse pochissime persone, dopo una lunga preparazione e in specifiche ciclicità. Quando gli occidentali (e non solo loro) iniziano a scimmiottare queste pratiche, decontestualizzandole dalla loro radice, ecco l’affiorare di orge e plagi (soprattutto sui più vulnerabili e fragili) spacciate per Tantra.
Terminologia I: le forme di Vodou
I racconti di Gianluca Furlan abbracciano principalmente tre tradizioni: Vodou haitiano, 21 Divisiones e sciamanesimo messicano. Evitiamo in questa sede l’excursus storico (leggibile su tanti testi e siti internet), preferendo chiarire cosa vi accade concretamente, informazioni ben più difficili da trovare su testi o altri articoli.
Il Vodou di Haiti, da qualcuno chiamato Santeria haitiana, si caratterizza con comunità molto gerarchizzate e un importante uso di sacrifici animali. Esistono numerose comunità, divise per varie tipologie e sottogruppi. Rispetto alla variante dominicana, il Vodou di Haiti tende a essere più “crudo” e alcune realtà di esso divengono particolarmente estreme. Inoltre, molte aree di Haiti sono tra le più pericolose del mondo. Quando certi culti toccano le zone più selvagge dell’isola, il contesto può divenire particolarmente aggressivo e senza un fidato contatto sul posto, si rischia di non uscirne vivi. In tanti casi nella storia haitiana, le “società del Vodou”, si occupano di regolare la vita comunitaria di intere città, nell’idea di evitare di sprofondare completamente nel caos (povertà, malattie, omicidi, ecc.). Le stesse “società del Vodou di Haiti” in passato dirigono e coordinano la rivoluzione contro la colonizzazione francese, vincendo. Haiti è l’unica colonia francese, in quel periodo storico, a liberarsi dal gioco straniero. Ricordiamo che al tempo tutta l’isola haito-dominicana diventa un’unica nazione indipendente, da molti definita come la più grande rivolta di schiavi della storia dopo quella di Spartaco nell’antica Roma. Ci sarebbe anche da approfondire il curioso episodio del “patto con gli spiriti del Vodou” stipulato dagli schiavi ribelli per liberarsi dai soldati francesi, ma è un’altra storia (una tremenda epidemia falcia gli occidentali, in soli due mesi muoiono 15.000 francesi. Tra malattie e scontri armati, poco più di 8.000 soldati francesi, dei 31.000 inviati, fa ritorno in Europa. Più di venti generali francesi trovano la morte. I coloni rimasti sull’isola, tutti massacrati. Per Napoleone è una totale disfatta).
Esiste un detto: Haiti è per l’80% cattolica, per il 20% protestante e per il 110% Vodou.
Le 21 Divisiones sono invece il culto praticato nella Repubblica Dominicana, chiamato anche Vodou dominicano, o Santeria dominicana. Molti spiriti di questo pantheon sono in comune con quelli del Vodou haitiano (vari ricercatori affermano che i due tipi di Vodou derivino dallo stesso “ceppo”). Tuttavia esistono notevoli differenze, ad esempio nelle 21 Divisiones i sacrifici di sangue sono più rari, i riti tendono a essere meno cruenti e le comunità (Societé) sono più elastiche. Per molti aspetti, il Vodou haitiano prevede una spiccata religiosità collettiva, mentre i sacerdoti delle 21 Divisiones tendono a praticare il culto in modo più individuale. Daniele Mansuino è l’autore italiano che più di tutti ha approfondito la dimensione delle 21 Divisiones, avendo passato un periodo di tempo sull’isola. Il Mansuino è stato il primo italiano, tornato in patria, ad aver ricevuto l’iniziazione a questa tradizione, nel 2005.
Daniele Mansuino, oltre ai suoi articoli, ci trasmette personalmente altri dati interessanti: 1) lungo il confine tra Haiti e la Repubblica Dominicana si sviluppa un altro tipo di Vodou, che è fusione tra le due forme precedenti. I sacerdoti di questa forma mista praticano la metodologia rituale haitiana (molti sacrifici animali), ma individualmente, senza necessitare di una comunità di fedeli. Si usano i simboli (Veve) della forma haitiana, ma all’interno degli altari dominicani. Formalmente è un culto delle 21 Divisiones; 2) esiste poi il “Vodou urbano”, all’interno delle grandi città dominicane, dove vari praticanti delle 21 Divisiones sincretizzano questa forma con la Santeria cubana (Regla de Ocha, o Regla de Ifà), divenendo devoti tanto dei santi haito-dominicani, quanto degli Orixàs, le divinità dell’etnia Yoruba; 3) infine, abbiamo il “Vodou delle campagne”, che è la forma più primitiva e pura delle 21 Divisiones, dove si tende a cultuare specifici spiriti, evitando eccessivi sincretismi con tradizioni esterne.
Nello scenario internazionale esistono altre due forme principali di Vodou: 1) quello di New Orleans (USA), fusione del Vodou haitiano con alcune forme di stregoneria esterne, tra cui l’Hoodoo; 2) e il Vodou del Benin, in Africa, dove è religione di Stato ed è probabilmente il ceppo più antico.
Ognuna di queste “sotto-tradizioni” include una quantità ulteriore di varianti. Addirittura, di comunità in comunità, a seconda di quali spiriti sono cultuati, possono cambiare molte cose.
Terminologia II: gli spiriti
Gli spiriti dei culti haito-dominicani vivono nel sincretismo tra i santi cattolici, le antiche divinità africane e altre entità, sia del continente nero, sia caraibiche. Quindi tendono ad avere un doppio nome, ad esempio San Michele Arcangelo è chiamato anche Belie Belkan, in riferimento a una divinità africana del tuono.
Teoricamente esiste una distinzione: ad Haiti si cultuano essenzialmente le divinità africane, tralasciando i santi cattolici (che diventano molto marginali), mentre nella Repubblica Dominicana si cultuano contemporaneamente i due aspetti. Ovviamente, dalla teoria alla pratica cambiano molte cose e non è difficile incontrare forme haitiane dove anche i santi cattolici ricevono equa considerazione, anche negli aspetti più profondi della dottrina.
Nelle 21 Divisiones i Santi sono chiamati anche Misterios, “i misteriosi”. Invece nel Vodou haitiano i Santi sono chiamati anche Loa, dal creolo “legge”. Anche qui dalla teoria alla pratica cambiano molte cose e spesso le terminologie diventano interscambiabili, essendo ormai quasi comune per i sacerdoti dominicani usare tanto Loa quanto Misterios.
Tuttavia, in entrambi i casi, si intendono le forze misteriose e intermedie esistenti tra Dio e l’uomo, che alcuni sacerdoti chiamano “le leggi di Dio”, negli aspetti benefici e negli aspetti distruttivi. Infatti, sia il Vodou haitiano che le 21 Divisiones sono religioni monoteiste, consideranti un unico dio perfetto, inconoscibile e per l’uomo inarrivabile, con molti aspetti in comune con il dio del Cattolicesimo. Ad Haiti lo chiamano Gran Met (il Grande Capo) e nella Repubblica Dominicana, Bondyeu (il Buon Dio). In ambo le tradizioni la divinità unica è considerata infinitamente buona e perfetta, creatrice di ogni cosa, per quanto alcune forze inviate in terra possano manifestarsi in modo terribile e spietato (per logiche trascendenti la comprensione umana).
Terminologia III: i sacerdoti
Tanto i sacerdoti haitiani, quanto quelli dominicani, ricevono il titolo di Hungan (se uomini) e Mambo (se donne). Donne e uomini hanno pari diritti, anche nel sacerdozio, sin dalle origini antiche del culto.
Di recente gli Hungan e le Mambo dominicane adottano il titolo di brujo (stregone) e bruja (stregona), assecondando i gusti generati dalle letteratura castanediana, per meglio farsi comprendere dagli esterni. Tuttavia non è raro incontrare anche Hungan haitiani che si presentano come brujo.
Nel corso dell’articolo adotteremo il termine brujo e bruja per riferirci a tutti i sacerdoti di queste tradizioni sincretiche afro-americane.
Sui ciarlatani e sulle finte trance
Su centinaia di presunti brujo, che si affermano tali, uno sarà quello vero. E su dieci autentici brujo, uno sarà l’anziano esperto, o magari il giovane straordinario, dotato di grandi qualità spirituali sin da subito. Un primo enorme filtro è quindi costituito da imbroglioni, truffatori e pazzi. La maggior parte dei turisti e dei curiosi cade qui ed è un pessimo affare. Un secondo filtro, se così vogliamo intenderlo, è costituito dai “giovani” brujo, magari gli apprendisti, o i neo-iniziati, coloro che ancora “studiano” e/o sperimentano le pratiche della propria tradizione, senza esserne padroni. Oltre essi, ci sono i los viejos (“i vecchi”, gli anziani), coloro che hanno speso una vita immersi nelle pratiche spirituali. I fatti straordinari iniziano solitamente da qui. Nel Vodou haitiano questi anziani, intendibili “gran sacerdoti”, assumono il titolo di Papaloa (se uomini) e Mamaloa (se donne). Ovviamente di questi “anziani” ne esistono pochi, si occupano loro di assistere le comunità e preparare i giovani brujo.
Testimonia Gianluca Furlan: «Riconosco subito gli imbroglioni, capisco subito se uno stregone è autentico. Non mi spavento, metto alla prova. Sono critico. Quando invece rimango strabiliato, è perché davvero accade qualcosa di grosso». Furlan ci racconta di umiliarne tanti, di truffatori e simulatori. Dopo decenni di esperienze, varie “misure del Furlan” per smascherare un imbroglione che dichiara di padroneggiare il Vodou.
PUNTO UNO. Stare attenti ai “giochi di prestigio”, soprattutto sull’isola haito-dominicana, alcuni adottano un gioco con un “uovo e una catena”, studiato per impressionare. Non c’è nulla di spirituale o magico, fanno leva sulla suggestione.
PUNTO DUE. Stare attenti alle droghe: «Alcuni ti offrono da bere dell’”acqua benedetta” prima del consulto. O possono offrire cibo. Non bisogna accettare nulla. Quando iniziano con questo trucco, subito li smaschero. Antonio, in tutte le esperienze reali che ti racconto, ero sempre lucidissimo: nessuno ha potuto drogarmi, né somministrarmi in alcun modo sostanze».
PUNTO TRE. I veri brujo, al di là delle offerte per i loro altari (candele, profumi, rum, statuette, ecc.), dicono subito: «Io lavoro alla prova». “Lavorare alla prova” significa che non accettano compenso fin quando si realizza davvero cosa hanno previsto. Solo dopo la verifica è possibile fare l’offerta al sacerdote, per quanto alcuni brujo possano accettare piccole somme, davvero irrisorie, ad esempio, per una divinazione (con carte, conchiglie, fumo, ecc.). Invece, l’offerta post-verifica, soprattutto per i trabajos serios, i lavori “gravi”, consiste in: «una offerta, solitamente a piacere, in cui si offre “quanto credi sia giusto per ciò che hai ricevuto”».
PUNTO QUATTRO. Verifica delle possessioni. In quasi tutte le tradizioni sincretiche afro-americane esistono le “cavalcate”. Esse consistono in una possessione dello spirito, o della divinità. La forza del Santo entra dentro il brujo, agendo e parlando direttamente con chi gli è vicino. E’ uno stato di trance particolare in cui il sacerdote-stregone è in grado di fare cose che normalmente non potrebbe. La cavalcata è quindi il modo in cui i brujo amplificano le proprie capacità, per un periodo di tempo limitato. Questa condizione non è considerata una “possessione diabolica”, bensì una benedizione. Esistono anche le possessioni demoniache, con i relativi esorcismi (ogni brujo esperto è considerato anche un ottimo esorcista). Riguardo le capacità amplificate, ad esempio, se normalmente il sacerdote è in grado di divinare, in possessione sarà in grado, in un attimo, di scendere così tanto nel dettaglio della vita del consultante, da lasciare allibiti. Inoltre, in quello stato essi dimostrano una forza inusuale e una resistenza fisica straordinaria. Ci sono anche casi di “cavalcate” in cui lo stregone (o il fedele) si infilza con lame e spilli, cammina sul fuoco, mastica pezzi di vetro e si passa il peperoncino sugli occhi, senza riportare danno. Ebbene, Furlan specifica: «Quando mi trovo in presenza di una presunta possessione, magari quando il brujo chiama dentro di sé i suoi Misterios, senza avvisarlo… gli infilo un ago sul viso. Se non si fa male e continua come se nulla fosse, è indizio di una vera trance». Insomma, simulare una possessione in presenza del nostro protagonista, risulta una pessima idea. Sulle cavalcate, Furlan aggiunge: «Dopo una possessione, il brujo solitamente è stordito. Invece gli stregoni più forti sono in grado di passare dalla trance alla lucidità con grande naturalezza, rimangono “costanti”, non sono affaticati né intontiti».
Volendo, esisterebbe anche un quinto punto che rivela la presenza di un vero brujo: «Di solito quando c’è uno stregone davvero forte, che conosce bene il Vodou e che parla con i Misterios… non occorre spiegargli nulla. Lui ti guarda… poi è stesso lui a dirti perché sei lì. Spesso non serve aprire bocca, sanno già tutto. Conoscono anche i dettagli delle domande, non serve farle. Puoi stare anche con la bocca chiusa. Fa tutto lui».
Nel Vodou haitiano I, il brujo Victor.
Furlan ci racconta che di consueto, quando si trova durante le ritualità, o in templi ben delimitati, percepisce eccome un’atmosfera particolare. Qualcosa di diverso e di profondo nell’aria, a volte qualcosa di elettrico: «Ma Haiti, no. Haiti, no! La chiamano l’Isola del Diavolo. Si sente subito che è un luogo di potere. Tutta l’isola. Tutta Haiti… è completamente, nel modo più forte, avvolta in un’atmosfera strana, che a tratti ti fa davvero paura. Non si tratta di entrare in un edificio particolare, o in un preciso luogo di culto, una casa… no. Tutta Haiti, dalla costa all’ultima baracca, è in questo clima. In vita mia non ho mai sperimentato una cosa simile. Non so cosa ci sia in quest’isola, ma è così forte che fa paura». La sensazione descritta è quella di una “bolla separata dal resto del mondo”, estesa per tutto il territorio dello Stato.
Un caro amico di Gianluca è Victor, conosciuto tra il 1996 e il 1997, al tempo un giovane brujo del Vodou haitiano. Grazie a Victor si visitano tanti luoghi e si conoscono tanti sacerdoti di valore, di quelli rari e irraggiungibili per i turisti e gli estranei: «Victor mi preparava. Mi faceva fare delle esperienze. Se non fosse stato per lui da molti posti non sarei tornato vivo. In più conosceva il creolo, fondamentale per capire e farsi capire da tanti haitiani».
Il giovane brujo conferisce al compagno di viaggi delle importanti benedizioni, finalizzate a salvargli la vita in caso di pericolo di morte violenta. Furlan non sa spiegarsi se si tratta di un caso o no, ma nel periodo temporale successivo, effettivamente, è uscito incolume da situazioni normalmente mortali. Riportiamo due casi, tra i tanti.
Durante una lite in un locale dominicano, l’altra persona estrae una pistola e la punta contro Gianluca, a distanza ravvicinata, lasciando nessuna possibilità di fuga. Preme il grilletto e l’arma si inceppa. Vivo per miracolo.
Victor è per l’amico “la parte bella del Vodou haitiano”.
L’altro caso. In Italia Furlan fa un bruttissimo incidente con l’auto e con lui c’è la madre. Il mezzo viene completamente distrutto, una serie di impatti fortissimi. Furlan è stordito e impossibilitato a muoversi per alcuni minuti, poi esce dal groviglio di lamiere e vetri… vivo e senza ferite serie. Anche la madre ne esce illesa: «L’incidente è stato assurdo, violentissimo. Sarei dovuto morire. Invece sono uscito tutto intero».
Torniamo all’isola. Il brujo lo prepara: «Vedrai cose che non sono di questo mondo. Devi saperti difendere».
Gianluca Furlan, col senno di poi e con l’esperienza acquisita, mi riporta una considerazione: «In alcune zone non ti è permesso andare. Devi ascoltare la paura. La paura ti aiuta sempre. Capisci il limite delle tue facoltà mentali, della tua sopportazione. Devi comprendere quando fermarti, prima che qualcosa “entri troppo” dentro di te e ti faccia “perdere”. Serve tanta consapevolezza».
Nel Vodou haitiano II, Port-au-Prince
Victor accompagna Gianluca in una delle prime esperienze, in una zona di Haiti vicino Port-au-Prince, la capitale.
I due si dirigono verso la casa di un brujo molto importante e temuto, in un’area dove le case sono costruite col fango. Terzo mondo. Seguono il percorso indicato da un vecchio incontrato lungo la strada, che dice a Furlan: «Ti apriranno, alla casa». Arrivati alla casa, in quel preciso momento la porta si apre, un istante prima che possano bussare. Una porta fatiscente e in legno sottile, aperta da un gatto che vi esce.
Dentro ci sono varie persone impegnate in un rito: «Ricordo che c’erano le persone, ma non riesco a ricordare i volti di NESSUNO. Come se fossero cancellati dalla mia memoria. Tutto nero. Un blackout che riguarda solo i volti, solo in quella circostanza. Ricordo solo il foulard rosso del brujo».
Gianluca si siede con l’amico su una panca di legno, a quattro o cinque metri dal rito e assistono come semplici spettatori.
Il racconto diventa surreale, lovecraftiano: «Lì in mezzo comparivano serpenti dal nulla. Prima non c’erano e poi, semplicemente, c’erano» - il tono di Gianluca è serio, serissimo - «Non capisco se fosse suggestione. Eppure ero sobrio, lucido, non avevo accettato cibo o da bere, non potevo essere stato drogato e l’illuminazione era buona. Certe stronzate le smaschero subito, le riconosco al volo. Ma lì non riuscivo a darmi nessuna spiegazione. La mente davvero si ferma, va in tilt».
Accade anche altro là in mezzo, che ho deciso di non dettagliare: «Era terrificante. Qualcosa di tremendo e feroce. Lì avevo paura ed ero pronto a scappare. In più, mi sentivo lo sguardo di quel brujo addosso. Non so spiegarti, ma sapevo che aveva l’attenzione su di me. Sentivo che stava per accadermi qualcosa».
Gli chiedo dei chiarimenti e mi dice: «Era come un’apparizione, tipo come quando appare la Madonna ai fedeli, ma era terrificante. Era fisico. Una statua che piange sangue è cento volte meno shockante di quello che avevo avanti. Ho provato una paura che è superiore alla paura della morte. Ho rischiato di morire varie volte, ma non mi sono mai sentito come mi sentivo lì. Antonio, non ho le parole per descrivertelo. Appena usciti, Victor mi fa: quello che hai visto era di un altro mondo, non di questo».
I due escono dalla casa, senza correre. Semplicemente si alzano dalla panca, non salutano e vanno via, li lasciano lì.
Gianluca percorre la strada del ritorno con: «un panico che non ti dico». Intanto, mentre i due si allontanano, Gianluca sente tutt’attorno: «grida, sibili e voci, che non capivo da dove venissero. Sapevo solo che dietro di noi c’era qualcosa». E infatti, quando Furlan sta per voltarsi, il giovane brujo lo ammonisce: «Non guardare indietro. Se ti giri diventi pazzo, o puoi morire per quello che vedi». Quindi i due continuano a camminare senza girarsi e l’intervistato ricorda di essersi “fatto forza” per non crollare nell’esperienza: «Uno sforzo incredibile per non guardare indietro. Mi sono aggrappato a me stesso e alla mia fede. Il ricordo di mia madre e quello di mio nonno sono stati fondamentali. Non so se mi capisci. Continuiamo a camminare, fin quando non siamo lontano da quella zona stranissima. E come se non bastasse, lungo l’andata… c’era una casa, in un certo punto… e lungo il ritorno quella casa non c’era più, come se non fosse mai esistita. Eppure mi ero accostato per bene la prima volta, ci avevo anche guardato dentro. C’era un cavallo nel cortile. Se mi sono confuso, non riesco ancora a capire come abbia fatto a confondermi tanto. Eppure eravamo in due, non ero solo».
Muovo delle domande a Gianluca, sul tipo di casa e di percorso, per ordinarmi le idee e lui: «Ce la siamo immaginati in due? Non tento neanche di cercare una spiegazione, certe cose le lascio andare così come vengono, altrimenti impazzisci. Fai finta di nulla e va avanti».
Nel Vodou haitiano III, el Babakoko e la “Festa Congo”.
Gianluca e Victor si dirigono a Batey Sete, nella Repubblica dominicana, lungo il confine con Haiti, dove vive una comunità haitiana.
Lì si celebra una ritualità particolare, ma piuttosto conosciuta sull’isola, chiamata Festa Congo. Probabilmente il nome tradisce l’origine di quei riti, infatti una parte (molto temuta) del pantheon haitiano è composta dalle sanguinarie divinità del Congo, portate dagli schiavi.
Anche qui il racconto del Furlan risalta le condizioni più estreme. Durante “il Congo”, i fedeli si passano il fuoco sul corpo e poi in gola, bevono rum – che è offerto agli spiriti – e poi accade qualcosa di ripugnante. O almeno, è accaduto lì, quel giorno, a Batey Sete. Non abbiamo conferma che si ripeta in modo identico anche altrove, nelle altre Feste Congo delle varie comunità haitiane. Gianluca si riferisce al cibarsi, ritualmente, di carne putrefatta, lasciata marcire sepolta sotto terra per quindici o venti giorni, con tutto ciò che la cosa comporta: «L’odore, Antonio. L’odore. Non ti dico l’odore che si sentiva». Basta il ricordo per sollecitare il voltastomaco.
Infine gli viene presentato “el Babakoko”. Il Babakoko non è considerato uno stregone posseduto da un demone (e non da un Santo!), bensì un vero e proprio demone incarnato in forma umana. Lo stato di trance non cessa, non ha un termine, è costante. Le parole di Victor sono: «I Babakoko sono demoni incarnati. Non averci molto a che fare. Sono pericolosi. E non guardarli troppo negli occhi».
Quel Babakoko si presenta come un uomo con la barba lunga e con il volto totalmente ricoperto da api o vespe, che gli vivevano addosso: «Si vedevano solo gli occhi e la bocca. Lo sguardo era fisso e terrificante, potevi sostenerlo per massimo trenta secondi… non lo reggi, ti gela. E’ troppo pesante. Avanti hai un predatore».
Soprattutto - spiegano a Gianluca - un Babakoko non deve essere MAI toccato. Vivendo in una costante trance e non di uno spirito benefico, mostra una forza fisica incontrollata: «Le persone lo salutavano senza offrirgli mai la mano. Altrimenti te la staccava. Lo salutavano e lo toccavano solo usando degli ossi lunghi, grossi come quelli di un prosciutto, per capirci. Non potevi stringergli la mano. Ho visto cosa accadeva all’osso quando lo stringeva… una forza tremenda. Avrebbe potuto spezzare le ossa di una mano e poi strapparla via. Tutto in un attimo».
Nel Vodou è consueta la distinzione tra due figure, l’Hungan (o brujo) e il Bokor, o Papabokor. Il primo è un sacerdote, definito essenzialmente nel compito di assistere e aiutare la propria comunità, facendo da intermediario con i Santi. Il secondo, è uno “stregone nero”, ovvero un praticante di Vodou che non ha una vocazione sacerdotale, né di assistenza, bensì diretto unicamente agli aspetti più distruttivi ed egoici. A un Bokor non interessa nulla di niente, soddisfa unicamente le proprie necessità e se necessario passa sulla vita di chiunque. Di sovente le due figure si trovano in conflitto. Ebbene, chiedo al Furlan se il Babakoko è assimilabile alla figura del Papabokor, magari un diverso modo di riferirsi a esso. Potrebbe anche essere che l’intervistato ricordi male il nome, suonando in modo molto simile e avendolo ascoltato essenzialmente in quella circostanza. Purtroppo su questo dettaglio Gianluca non può esprimersi con maggiore precisione.
Di conseguenza, per rigore terminologico, esistono due possibilità. O il Babakoko è un modo di quella comunità di riferirsi al Papabokor, o è un termine realmente separato, magari indicante la forma più estrema di uno “stregone nero”.
Per amore di dettaglio, riporto che, alcuni, tendono a distinguere i due “titoli”, dipingendo il Bokor come la figura malvagia già espressa e il Papabokor come un diverso modo di riferirsi all’Hungan. Infatti, a livello letterale, Bokor e brujo significano la stessa cosa, “stregone”. Ma nel primo caso lo si intende in via negativa e nel secondo, essenzialmente in senso positivo (per quanto anche gli Hungan/brujo possano applicare la “giustizia” in modo molto duro).
Concludiamo l’esperienza in quella comunità haitiana vicino Batey Sete: «A un certo punto Victor mi dice che dobbiamo andare via, che non è più sicuro. Non capisco il perché, forse deve accadere qualcosa di particolare, o sono arrivate persone pericolose. Quindi torniamo al mezzo e lasciamo quel posto. Senza una persona come Victor, è impossibile entrarci o uscirci vivi, o almeno con tutti i pezzi a posto».
Nel Vodou haitiano IV, lo zio di Victor
Il giovane Victor ha uno zio, un brujo più anziano ed esperto, a Barahona. Furlan non sa dire se oggi sia ancora in vita. Comunque, in quel periodo gli viene presentato. Un ricordo positivo e anche surreale: «Mi porta in una stanza, avanti a uno specchio e mi dice: “Guarda i tuoi nemici”».
Gianluca rimane stranito e istintivamente guarda l’oggetto: «ed effettivamente vedevo delle immagini di persone scorrere nello specchio, persone che conoscevo, le distinguevo. Non so dire se me le sono immaginate, però una cosa posso dirla… tutti quelli che sono apparsi nello specchio, poi mi hanno tradito o procurato danno, seriamente». Probabilmente Furlan, in quel momento, preso di sorpresa, non realizza appieno la “gentilezza” del brujo.
Nel Vodou haitiano V, il brujo Horge e la divinazione
Horge è un brujo esperto del Vodou haitiano. Nel 1999 Gianluca e Victor si trovano nell’area di Batey Sete, nella Repubblica Dominicana, dove vive il sacerdote-stregone. Nella zona lavorano la canna da zucchero e, anche qui, le case sono fatte col fango.
Furlan ricorda Horge come un anziano molto forte, con la testa grande e i capelli bianchi. Porta sempre con sé qualcosa di simile a una cornamusa avvolta in un panno, con cui parla in creolo: «Con questa cosa chiamava gli spiriti, poi batteva per terra un bastone e fischiava. Mi ha colpito un lenzuolo sporco di sangue appeso al muro della sua casa». Victor ne ha il massimo rispetto, quasi reverenziale, segno che ci si trova alla presenza di una persona considerata molto potente: «Come offerta per gli spiriti gli ho comprato sette candele, una bottiglia di rum e delle essenze profumate».
Horge fa togliere a Gianluca la scarpa destra e poi gli fa poggiare il piede nudo su un teschio umano che tiene con sé: «Improvvisamente sento come una pugnalata dentro il mio piede, proveniva dal teschio. Faceva male. Non una puntura, una pugnalata. Io grido per il dolore e mi alzo di colpo, anche se non c’era nulla. Ma Horge interviene subito e mi costringe a rimettere il piede sul teschio. Il dolore passa, non sentivo più la “pugnalata”».
E’ a quel punto che l’anziano brujo dice una cosa che un anno dopo si sarebbe rivelata della massima importanza: «Horge mi rivela il tradimento di una persona carissima, il padre di quella che al tempo era la mia seconda moglie. Per me era uno davvero di famiglia, lo consideravo mio padre. Poi, dopo avermelo detto, lo stregone aggiunge: “Se vuoi posso chiedere agli spiriti di impedire che accada”».
Lì iniziano i problemi. Gianluca reagisce malissimo, rifiuta la protezione e si rivolge in modo aggressivo verso il brujo. Victor è costretto a intervenire, si mette in mezzo, coll’anziano parla in creolo, per calmarlo e all’amico dice: «Non puoi fare così. Lui è un saggio. Lui vede la verità. Se ti dice una cosa, è quella».
Grazie all’intervento di Victor il clima si calma e Gianluca si scusa con l’anziano stregone. Il consulto può continuare. Furlan gli ricorda che si trova lì per una questione ben precisa, avendo perso un anello d’oro di diciotto carati e con ventuno diamanti: «Horge mi dice: “Io lavoro alla prova. Mi paghi solo dopo che la cosa funzionerà. Ora ti dimostrerò il potere dei Misterios. Domani, all’una, verrà una persona che ti riporterà l’anello, perché l’avrà trovato. Per ringraziarla le dovrai dare cinquecento pesos, perché sarà stata onesta. Ora non pagarmi nulla, lo farai dopo che sarà accaduto”».
I due salutano l’anziano e tornano a Tamaño. Gianluca passa la giornata ad attendere: «Aspettavo, ma non accadeva nulla. Scocca l’una e nessuno arriva. Nessuno. Ci rimasi molto male. Pensai che era un ciarlatano e che ci ero cascato come un fesso, ma almeno non lo avevo pagato».
Esattamente una ora dopo, alle due, bussa alla porta una signora… con l’anello ritrovato, esattamente come aveva predetto lo stregone, anche se con un’ora di ritardo. Dopo averla ricompensata con cinquecento pesos, Furlan fa dei controlli: la signora e l’anziano brujo non si conoscono, vengono da due zone molto distanti e, soprattutto, fino al giorno prima, Horge non sa del problema dell’anello.
«Sono tornato da Horge il giorno dopo, per sdebitarmi. E lui mi aspettava con il sorriso, già sapeva tutto, o l’aveva intuito vedendomi lì. Mi diceva: “Ora lo hai visto il potere dei Misterios?”».
Gianluca fa l’offerta al sacerdote haitiano e nuovamente si scusa per come si è comportato: «Però comunque ho rifiutato l’idea che il padre di mia moglie potesse tradirmi e quindi gli ho chiesto di non fare alcun lavoro per proteggermi. Anche se il brujo insisteva».
L’epilogo? Circa un anno dopo, mentre Gianluca è in Italia per le vacanze, il suocero gli ruba tutti i soldi che ha, spendendoli in cocaina, prostitute e gioco d’azzardo. Tutto. Non gli lascia nulla, distruggendogli la vita. Gianluca e la sua seconda moglie si ritrovano in Italia, da soli, con poco più di mille euro in contanti e senza neanche la possibilità di tornare sull’isola, dove non rimaneva niente dell’attività (una prima finanziaria). La disperazione più nera. Grazie a Dio, poco tempo dopo, tramite un caro amico in Italia, Furlan entra nei servizi segreti: con i soldi che guadagna in alcuni anni di attività può viaggiare nella Repubblica Dominicana, comprarsi una bella villa e riaprire la finanziaria. Addirittura con una stabilità superiore.
«Horge era impressionante».
Nel Vodou haitiano VI, un ciarlatano di buon cuore
Furlan ne ha conosciuti di ciarlatani, tantissimi. Ogni cento imbroglioni, un vero brujo. Eppure, proprio uno di questi truffatori, gli salva la vita. In quei giorni Gianluca si trova presso una comunità haitiana per incontrare chi si afferma stregone, come consueto. Qualche ora prima subisce il furto di un computer portatile e, intuendo il ladro, lo denuncia alle autorità. Poi si reca dal brujo.
Il ciarlatano fa i suoi giochi di prestigio. Furlan ci ride su e se ne va.
Sulla strada del ritorno verso il motel poco distante, Gianluca riceve la telefonata improvvisa di quell’imbroglione, che allarmato gli grida di non tornare lì, di cambiare strada: «Il tipo aveva visto l’haitiano che avevo denunciato, armarsi di macete e muoversi, forse con degli amici, dove alloggiavo. Non aveva di certo divinato, ma vivendoci vicino lo aveva visto con i suoi occhi».
Gianluca cambia strada, evita di fermarsi lì e si salva: «Quell’uomo era pronto ad ammazzarmi. Voleva farmi a pezzi con il macete, voleva tagliarmi a pezzi. Un agguato fuori l’alloggio non me lo sarei aspettato. Ero anche disarmato. Sarei morto. Non tutto il male viene per nuocere… grazie a quel truffatore sono ancora vivo. Sono vivo grazie a lui».
Nelle 21 Divisiones I, considerazioni iniziali
Gianluca Furlan esprime una distinzione tra il Vodou haitiano e le 21 Divisiones (note anche come Vodou dominicano): «L’haitiano è magia nera, è feroce, mentre le 21 Divisiones sono magia bianca. E’ bianca anche quando deve colpire e fare giustizia. E’ come la Santeria cubana».
Egli intende l’atmosfera che regna nelle due forme e gli aspetti più crudi visti nei culti ad Haiti. Se da un lato ci testimonia che le cose più pericolose le ha viste fare agli haitiani, dove ci ha rischiato anche la vita (sen non fosse stato per Victor non l’avrebbero lasciato andare), precisa comunque che, probabilmente, è proprio grazie alle benedizioni del Vodou haitiano che si è salvato da situazioni assurde ed è stato avvertito delle minacce più gravi che l’avrebbero atteso nel tempo.
Almeno per i luoghi visitati, Furlan essenzialmente ci riporta una differenza percettiva: dove si pratica il Vodou haitiano, c’è una tensione, qualcosa di inquietante, mentre nei luoghi dove si praticano le 21 Divisiones c’è un clima “carico di energia”, ma piacevole. Anche quando i brujo dominicani lo lasciano di stucco e lo strabiliano, non gli fanno mai provare terrore: «Quando parlano possedendo il proprio brujo… sai come ti lasciano i Misterios Petrò, considerati “gli spiriti del potere” delle 21 Divisiones? Ti sibilano: “BENEDICION! BENDICION! BENEDICION!” e subito ricevi una scossa di adrenalina. Vai via con il sorriso. Sei felice».
La distinzione tra le due forme, prese per intere, è ancora più complessa e non mancano, in alcune aree, molti sincretismi haito-dominicani. Ad esempio, gli spiriti Petrò esistono anche nell’haitiano, soprattutto lì. Tuttavia la testimonianza di Furlan ci dona una precisa fotografia delle specifiche realtà vissute, come molto, molto raramente accade a un occidentale, compresi i praticanti di quelle tradizioni. Non si sa come, ma “El Chavo” è andato a finire proprio nelle situazioni più estreme del culto haitiano e non nelle comunità più “ordinarie”, dove molte celebrazioni religiose sono aperte al pubblico.
Furlan nel tempo fa la conoscenza di circa cinquanta presunti brujo delle 21 Divisiones: «Ma solo cinque o sei di loro avevano davvero il potere dei Misterios. Lo stesso discorso del Vodou haitiano: non occorreva neanche che parlassi, mi dicevano tutto loro». Appena il dieci per cento dei sacerdoti-stregoni è reale.
Nelle 21 Divisiones II, La Diciosa
Tra il 1994 e il 1995, nella Repubblica Dominicana, nella cittadina nota come Don Gregorio, vicino Nisao, Gianluca Furlan è ricevuto da una importante bruja, che lì tutti chiamano La Diciosa. La Diciosa è una stregona dominicana che lavora prevalentemente coi Misterios Petrò: «Ci siamo visti più volte. E’ una donna che mi ha impressionato molto. Quando entro da lei, vedo gli altari dei Santi. Riconosco le immagini di Santiago e di Santa Marta la Dominadora. E lì c’era anche l’altare Petrò. Sotto il tavolo aveva una conca di vetro da cui usciva una fiamma di trenta centimetri, sempre accesa».
La bruja accende il suo sigaro e guardando il movimento del fumo, racconta a Gianluca la sua vita, con una naturalezza che lo spaventa: «Mi dice delle cose che manco mia madre sapeva. Solo io le conoscevo. Erano segretissime. Nessuno poteva arrivarci. Antonio, era una cosa impressionante». Nessun consulto, con nessun brujo di qualsiasi tradizione, è mai andato tanto affondo.
«Avvertivo delle scosse, dei brividi continui. Accade questo quando mi rendo conto che c’è la presenza invisibile di un vero Misterio». In quel momento inizia la possessione e lo spirito parla attraverso la bocca della sua sacerdotessa: «Quando il Misterio va via, la bruja rimane intontita. Lì ho ricevuto una benedizione dal Petrò».
Nelle 21 Divisiones III, Hansel e San Bartolomeo
L’incontro più recente avviene nel 2019. Il brujo Hansel vive a Villa Guera, in piena zona montuosa, nella “monteria” della città di Bani, nel sud della Repubblica Dominicana. Nonostante la giovane età, Hansel è considerato da tutti un sacerdote molto potente, con la particolarità di lavorare con un solo Santo, il Petrò San Bartolomeo (Gran Bwà Ileò). Fa quasi tutto con lui, uno spirito a cui è devoto in modo assoluto.
Gianluca fa la conoscenza di Hansel attraverso un suo carissimo amico, altrettanto devoto ai Santi del Vodou dominicano, abbastanza da avere due grossi tatuaggi, Santiago (Ogun Balenyò) e San Michele (Belie Belkan).
Hansel è considerato così forte ed efficace, che un medico originario di Haiti, di cui il brujo è il “padrino”, gli manda i pazienti non risolvibili attraverso le cure tradizionali, né attraverso gli strumenti della psicologia: «Quando il malessere non è fisico, né mentale, viene considerato di tipo spirituale» (o comunque quando le cose si accompagnano).
Quando lo stregone deve chiamare il suo Petrò, San Bartolomeo, si allontana dall’altare dove sono gli altri Santi e va in una zona della casa senza il pavimento, dove i piedi sono a contatto diretto con la terra. Quello è il puntos del Petrò: «Mi ha chiesto di portare un melone e delle candele come offerte al Misterio. Per quel che so, Hansel lavora in due modi: o attraverso il fumo del sigaro, come faceva “La Diciosa”, o incorporando in possessione San Bartolomeo e facendo fare a lui».
Il brujo inizia con i consulti appena sveglio, alle quattro del mattino. Per riuscire a essere ricevuto da lui, occorre parlare con la madre e prenotarsi, anche una settimana prima. La fila è enorme, le persone vengono anche dalle altre regioni per incontrarlo. Addirittura, può capitare che quando una persona si prenota, ancora prima di essere ricevuta, il brujo le fa sapere quando non è necessario l’intervento dei Misterios. Ad esempio, una donna preoccupata per la nipote, viene contattata il giorno prima di andare da Hansel, tramite un suo “assistente”: «Andrà tutto bene. Non è necessario far scendere gli spiriti. Sarebbe uno spreco di denaro».
Nella casa-tempio del brujo esiste anche un’altra particolarità. Quando è presente un bambino con gli altri fedeli/clienti, tutto è gratuito e in quel caso Hansel non prende nulla: «San Bartolomeo ama i bambini», quando ci sono, è “festa”. Considerando le capacità del sacerdote, dubitiamo che i fedeli possano intenzionalmente abusare di questa “regola autoimposta” (o magari indotta dallo stesso Petrò).
Su cos’altro accade tra Hansel e Gianluca, non mi è permesso riportarlo.
Nelle 21 Divisiones IV, il Baka e i contratti col diavolo
Normalmente le 21 Divisiones sono un culto di spiriti considerati santi, intermediari tra Dio e l’uomo, dove esistono rigide regole. Ad esempio, c’è il divieto assoluto di uccidere (“solo Dio può deciderlo”), che è comunque diverso dal “non poter chiedere giustizia” e il divieto di creare un rapporto spirituale quando ne esiste uno sentimentale e/o sessuale. Ovvero, un brujo dominicano non può avere rapporti intimi (neanche “platonici”!) con un fedele che riceve da lui il battesimo sacerdotale, neanche se fosse la propria moglie o il proprio marito.
Ciò esprime il rigore morale degli autentici brujo. Tuttavia, esattamente come accade anche nei territori del Vodou haitiano, anche nella Repubblica Dominicana esistono gli aspetti degeneri, soprattutto ad opera dei bokor, gli stregoni neri non considerati “sacerdoti”. Costoro non si interessano di celebrazioni o di assistere le persone secondo uno spirito di giustizia, bensì fanno ciò che conviene loro, anche nel modo più spregevole. Tanto i brujo dominicani, quanto quelli haitiani, da sempre manifestano aperto disprezzo per i bokor.
Gianluca si trova in visita a Barhaona, dal vecchio Pantaleo, una persona che lo ospita e che ha una casa in campagna. Un terreno grandissimo, ettari e ettari di coltivazioni, il più esteso dell’area. Un proprietario terriero e un produttore ricco, ricchissimo.
Appare tutto normale, ma la notte accade l’inferno. Furlan nota che Pantaleo lascia un piatto con del cibo fuori la porta di casa, per terra. Incuriosito, osserva. Qualcosa, nel buio, grande quanto un cane, corre verso l’offerta. Quello che vede, però, non è un cane, ma qualcosa di mai visto primo e che non riesce a spiegarsi: «Mi si gela il sangue. In quel momento, in piena notte, dal piano di sopra, il vecchio inizia a ridere ad alta voce. Era qualcosa di infernale, rideva euforicamente, era pura follia. Vedevo quella “cosa” lì e il vecchio rideva impazzito». Tralascio i dettagli dell’ “animale”. L’esperienza è tanto brutta da “competere” con la prima visita ad Haiti, quella nella zona vicino Port-au-Prince, fatta nello stesso anno: «Lì mi sono “cacato sotto”, ero dentro un incubo e non sapevo cosa fare, come paralizzato… poi, in un attimo tutto è tornato normale. Quella cosa era andata via e il vecchio non rideva più. In un attimo la notte diventa tranquilla, tutto è accaduto in un solo breve momento. Non so dire se ero uscito di testa, però ho visto quello che ho visto».
Furlan sa dei “patti con il diavolo” che si stringono in quella zona: «Molte persone li praticavano, per avere abbondanza e ricchezza. E Pantaleo, era il più ricco di tutti. I contratti con il diavolo erano diversi dai patti con i Misterios. Quelli con il diavolo avevano sempre un prezzo orribile, perché i demoni dell’isola non si accontentano della tua anima… vogliono anche la vita delle persone».
Il giorno dopo Gianluca chiede spiegazioni a Pantaleo e le riceve senza problemi: «Il suo contratto con il diavolo era folle. Non solo faceva le offerte a quella “cosa” lì, chiamata “El Baka”… ma ogni anno un parente doveva morire. E succedeva! Mi sono informato, ho cercato. Puntualmente, ogni anno, un suo familiare moriva, ogni volta accadeva qualcosa, uno all’anno. Fin che sarebbero continuati questi sacrifici, lui sarebbe diventato sempre più ricco, il più ricco di tutti. Abbondanza e ricchezza».
Nello sciamanesimo messicano I, lo sciamano di Oaxaxa
Nel 2000 e nel 2001, influenzato dalle letture di Castaneda – al di là delle imprecisioni storico-antropologiche e dei fatti indimostrabili – Furlan decide di far visita agli sciamani del Messico, famosi per l’utilizzo delle sostanze psicotrope, necessarie alla famosa visione nota come “viaggio sciamanico”.
L’autentica visione mistica ottenibile con le sostanze allucinogene, necessita della diretta supervisione di un maestro esperto in quell’arte. Precisa Gianluca: «Io ho avuto a che fare con uno sciamano della regione di Oaxaxa, dal nome impronunciabile, non riesco neanche a ricordarlo. Se non sei pronto, loro ti rifiutano. Non si tratta di giocare con le droghe. Sei obbligato a prepararti, a seguire le indicazioni, che includono anche periodi di astinenza sessuale, di digiuni e di precise diete. Quando si presentava qualcuno non idoneo, lo sciamano lo scacciava. Gli diceva: “Torna tra un anno, poi valuterò”».
Ovviamente, gli occidentali che giocano al viaggio sciamanico, tra funghi e altre sostanze allucinogene, senza alcuna preparazione e senza alcuna formazione sacra, fanno altro. Qualcosa di inutilmente dannoso, che mascherano coll’apparenza della ricerca sacra.
Furlan si sottopone al regime, quindi viene accettato al rito del peyote, chiamato “San Pedro”: «Una esperienza che mi ha lasciato un segno profondo. Hanno una conoscenza che supera il concetto umano» (si specifica che tecnicamente il "San Pedro" e il peyote sono due sistemi differenti, per quanto abbiano in comune la mescalina. Il Furlan riporta i dati come appresi nelle sue esperienze messicane, assai brevi se confrontante alle esperienze haito-dominicane).
L’esperienza è indescrivibile: «Non esistono parole per dirti cosa ho visto. Posso solo dire: un viaggio dell’anima. Si tratta di varcare il confine del mondo terreno. Sei come nel post mortem, a un certo punto vedi la luce in fondo al tunnel».
Nelle fasi avanzate del viaggio dell’anima, Furlan è altrove. Non si ricorda neanche più di avere una vita “reale”: «Ho sentito anche la paura… perché non riuscivo a “tornare indietro”, dentro il mio corpo. Anzi… non riesco a spiegarti… o non ci riuscivo… o NON VOLEVO riuscirci. Nella mia memoria ho chiara la sensazione di voler lasciare tutto indietro e andare verso la luce. Non mi interessava più nulla della vita. Quello che trovi oltre è… oltre».
Nel momento in cui Gianluca formula il pensiero di “abbandonare la vita” e lasciarsi andare alla luce, in quel preciso istante, in perfetta sincronicità, lo sciamano rientra in scena: «In un attimo mi ha riportato indietro. Ha deciso quando era abbastanza. Mi ha preso il braccio e sono ritornati tutti i sensi. Non ero più nella luce. E’ un’esperienza che ti soverchia completamente».
Una delle utilità del compiere queste riti con autentici sciamani del luogo? Furlan ce lo spiega con poche e chiare parole: «Non hai più paura di morire. Ti passa. Perché vedi e provi cosa accade quando si muore. E’ bellissimo».
Gianluca non ripete più quel viaggio. Senza la presenza dello sciamano non si azzarda a provarci, può diventare molto pericoloso. Rimane il ricordo, che basta per tutta la vita, perché trasforma il modo di concepirla.
Nello sciamanesimo Messicano II, Maria Sabina
In gioventù, in Messico, Gianluca fa la conoscenza della famosa curandera Maria Sabina, nota a tutti gli studiosi del mondo. Ci riesce grazie a Don Pepe, direttore dell’Hotel “Washington” dove alloggia.
Questa guaritrice che ha fatto storia, usa più di centocinquanta specie di funghi, di cui molti allucinogeni.
I due si conosco quando lei è già molto anziana: «Dall’aspetto mi ricordava Madre Teresa di Calcutta. La profondità del suo sguardo mi spaventava e mi affascinava allo stesso tempo».
L’incontro è tranquillo: «Mi toccava le mani in punti molto precisi e mi parlava della mia vita. Conosceva molto bene l’aspetto umano delle persone. Non accade nulla di “magico o terribile”, però mi ha lasciato qualcosa di profondo, che è ancora con me».
Concludendo
Ringraziamo El Chavo per un racconto lungo molte ore. I lettori traggano le proprie conclusioni, l’autore ha curato ogni dettaglio espresso da Gianluca Furlan, ordinando una certa mole di informazioni.
Comprendiamo l’inediticità del pezzo, oltre al valore socio-antropologico, che potrebbe essere assai utile a più di un ricercatore, essendo espresse realtà rare.
Gianluca Furlan così termina: «Sai che potresti farci un libro? Se ti dico tutto, riempi una enciclopedia».
Antonio Dentice
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